Perfettamente in linea con l’atmosfera malinconica dell’inizio dell’autunno, Essex Honey è un album che resisterà al passare del tempo, un luogo sicuro dove possiamo sia piangere che trovare conforto.
Non so quante persone abbiano veramente guardato, senza mai interromperlo, il video della durata di un’ora e sette minuti che Andrea Laszlo De Simone ha pubblicato cinque mesi fa per annunciare l’arrivo del suo nuovo album, Una lunghissima ombra, uscito il 17 ottobre. Io l’ho guardato qualche sera fa, dopo aver ascoltato e riascoltato il disco diverse volte nei giorni precedenti. Immagino che secondo i piani dell’artista il video andasse visto prima di ascoltare, ma anche guardarlo dopo ha molto senso, e sono qui per raccontarlo.
Il video è privo di musica ma accompagnato soltanto dai rumori naturali catturati dalle varie inquadrature che si susseguono. Lui che fuma una sigaretta, una città trafficata nel buio stile Koyaanisqatsi, le fiamme di un falò, la notte che diventa alba mentre gli uccellini cinguettano, una paperella fucsia nell’acqua di una vasca, una giostra con l’inconfondibile voce del giostraio e delle risate, degli uccelli sui rami, un fiume scintillante. Ogni tanto, tipo sottotitoli, compaiono le frasi delle canzoni che compongono l’album. Come abbiamo scoperto il 17 ottobre, a ogni canzone (l’ombra) verrà poi associata un’inquadratura (la luce): il video di “Il buio” è la prima scena, quella della sigaretta, e così via, ritroviamo tutto il video scomposto nei vari video delle varie canzoni. Le frasi che compaiono sono le frasi killer, quelle che ho scoperto di aver imparato a memoria.
Parole che fanno male + musica meravigliosa = strano benessere
È successo, così, che mentre guardavo il video camminando sul mio walking pad (è una scena ridicola, lo so, ma parla del mio – nostro? – span di attenzione gravemente compromesso: non riuscirei mai a guardare una cosa del genere stando ferma), mi sono ritrovata a riconoscere (e pronunciare ad alta voce, tipo preghiera) quelle parole che già nelle canzoni mi facevano male (ma anche bene, perché con la musica funziona così, ce l’ha ricordato di recente anche Blood Orange: parole che fanno male + musica meravigliosa = strano benessere). Pillole amare che, però, non più addolcite dalla musica ma immerse nei rumori della vita (una vita contemplativa e solitaria, di una persona che fuma da sola nel buio o osserva un paesaggio per lunghi minuti senza dire niente), ho fatto fatica a mandare giù, così come ho fatto fatica a guardare il video, lo stesso identico tipo di fatica che sono sicura si ritrova a provare chi medita per le prime volte.
Non mi ha stupito leggere nelle interviste che per lui fare musica è una forma di meditazione. La meditazione di uno che ancora non sa meditare, però, perché mentre cerca di osservare il proprio respiro si ritrova invaso dai pensieri intrusivi. «Forse ho mentito sempre o forse son troppo sincero / Ed ho una fragile mente, o sono solo immaturo / O, più probabilmente, non voglio pensare al futuro / Perché sono quasi sicuro che sbaglierò per sempre». Quand’è che Andrea Lazlo De Simone ha avuto accesso alle note del mio iPhone? Oppure «Tu in modo semplice / Sai dirmi cos’è la vita / Ma io che non so dirlo / Sì, io vorrei morire». O anche: ««E ora sconvolto dal dolore / Abbandonato nella mia sventura / Se c’è qualcuno che non ha paura / Io prego mi soccorra» («Vieni a salvarmi», cantava già nel 2017: da un fumogeno conservato dal video di quella canzone proviene l’immagine della copertina di questo album). E pure: «Colpevole, sono colpevole / Sono colpevole, sono colpevole / Sono colpevole, sono colpevole». E poi il gran finale che dà il titolo, una delizia quando lo ascolti per la prima volta:« Io mi accorgo di esser diventato grande / Vedo solo facce stanche / E quando viene sera / Proietto una lunghissima ombra».
Al posto di Dio c’è l’amore
Sono sicura che odierebbe questa cosa che sto per scrivere, lui che dice che ha deciso di non fare più tour perché odia la piramide che si crea – uno sul palco e il pubblico sotto, adorante – e rifiuta totalmente quel tipo di idolatria che si genera con certi musicisti («Non fare di me un idolo mi brucerò, se divento un megafono mi incepperò» diceva un altro che ci ha dimostrato che invece a lui i tour piacciono parecchio). Ecco, Andrea Laszlo De Simone è il prete dei miei sogni (non uccidetemi, aspetta Laszlo, ora ti spiego). Un prete laico, un po’ nichilista e illuminato che non esiste e non ho mai incontrato, se non nelle prime messe a cui mi portarono da bambina, quando durante l’omelia, per le prime volte e con i pochi strumenti che avevo, mi ritrovavo mio malgrado a riflettere sulla condizione umana, sulla morte e sulla vita. Ascoltare Andrea Laszlo De Simone significa camminare con le cuffie dopo una giornata di lavoro e ritrovarsi dentro a una canzone come “Aspetterò”, che parla appunto di morte. «Che se vivo ancora / È soltanto perché / Una cosa io l’ho capita / Che la vita è una lunga attesa».
È abbastanza terrificante, anche se quando schiacci play, se conosci la sua musica (o hai anche solo ascoltato “Vivo” e “L’immensità”), sai bene in quale guaio stai andando a infilarti. Fanno quasi paura, i pensieri che ti ritrovi a canticchiare, ma al tempo stesso ti riportano nell’unica realtà che conta, o a interrogare anche quella: «Cosa sappiamo di noi? / Cosa ci illumina / Cosa ci spinge / Cosa ci domina / Non è reale». Nella non-religione di Laszlo, al posto di Dio c’è l’amore (che compare e ricompare lungo l’album, per esplodere nella dichiarazione d’amore che è “Per te”), e al posto di un culto religioso c’è semplicemente il suo essere un artista che è riuscito a entrare in contatto con quello che tutti siamo e che ci rende uguali, e a metterlo in musica. Nelle interviste si definisce spesso una “cavia”, per dire che questi pensieri sono suoi ma potrebbero essere di chiunque. Niente di più lontano dalla predica di un prete, mi rendo conto, eppure in questi tempi orrendi, di vomiti di parole e violenza e polarizzazioni e numeri da raggiungere, la sua arte umile e vaga (nel senso leopardiano del termine) mi sembra ciò che di più vicino possa esistere alla spiritualità di cui abbiamo sempre più bisogno.
Il lancio di stracci tra attiviste e Lucarelli ci ricorda l’importanza, anche nel 2025, di avere strutture che possano filtrare, modificare, ponderare le opinioni prima di immetterle nel discorso pubblico.
