Per evitare di chiudere alcuni palchi per sovraffollamento, quest’anno gli organizzatori venderanno meno biglietti.
Le storie degli insuccessi letterari di scrittori che poi ce la fanno – da vivi o morti – interessano così tanto a chi scrive perché tengono viva la loro speranza (un giorno) di riuscirci. Tutti di J.K. Rowling ricordano i dodici rifiuti di Harry Potter, o il self-publishing del primo libro della Recherche, o Stephen King che lanciò nel cestino il manoscritto di Carrie, recuperato poi dalla moglie. Tutti tirano fuori il proprio autore preferito, per ricordare che “certo, anche a *inserisci nome autore preferito* hanno rifiutato i primi tre romanzi”.
Chi vorrebbe vivere di scrittura – il terrore di tutti i padri borghesi dei grandi romanzieri francesi dell’800 – trova in questi fun fact uno spirito motivazionale, come un poster “Keep calm and carry on”, o un modo di equiparare a un certo punto della vita il proprio percorso a quello di Flaubert. La storia editoriale di vari romanzi rientra in queste mitologie, dove spesso il percorso di pubblicazione oscura il contenuto stesso, come quella di Stoner o di Una banda di idioti (titolo tradotto goffamente di A Confederancy of Dunces di John Kennedy Toole). Il libro d’esordio di Helen DeWitt, L’ultimo samurai, potrebbe entrare in queste mitologie. Si potrebbe forse creare una esoterica equazione per calcolare i motivi del successo di un romanzo, infilandoci dentro gli studi sul gusto di Bourdieu, le markette di Robinson, il giusto editore (pensate a Carrére pre-Adelphi), le pressioni editoriali, gli accadimenti storici fortuiti che riportano un libro in auge (come quando Festa mobile tornò un bestseller dopo gli attentati a Parigi del 2015).
Ma leggendo solo ora, dopo 25 anni, L’ultimo samurai, si capisce che invece la domanda è mal posta. Non è “come mai i libri hanno successo?”, ma “quando i libri belli avranno successo?”. Permettendoci un certo ottimismo, possiamo dire che ciò che è grandioso troverà prima o poi la luce, come Il processo, le grotte di Lascaux o i poemi di Emily Dickinson. Per L’ultimo Samurai di Helen DeWitt, se non possiamo ancora inserirlo nella categoria più alta, possiamo dire che ha iniziato il suo percorso nel flusso altalenante dell’eterno ritorno per essere un giorno, forse, considerato tale.
Il libro, uscito nel 2000, è il tardo esordio dell’americana classicista dottorata e poliglotta DeWitt finita a lavorare in uno studio legale. Come ha raccontato lei alla Paris Review, verso la fine dei 30 anni aveva già scritto «almeno un centinaio di romanzi». E si era detta di finirne uno, e lavorare per un mese a un libro, finché i soldi non sarebbero finiti. Poi arriva un’offerta che le permetterà di finire il romanzo. Il Sunday Times il 17 ottobre del 1994 pubblica un articolo dal titolo «Romanziera “fallita” scrive trionfo da 250 mila sterline». Il libro uscirà un po’ dopo. Sul Times si legge, nel 2000, «Vita letteraria di una romanziera inizia a 50 anni». Un buon successo, con qualche elogio critico e qualche affondo. Poi il libro scompare, va fuori catalogo, diventa quasi un cult. Rinasce quando viene ristampato nel 2016 e viene eletto dal New York Magazine come il miglior libro del Ventunesimo secolo. L’anno scorso finisce nella classificona del New York Times al 29esimo posto – classifica discutibile, un esempio che le classifiche collettive e non radicali producono mostri. Ora torna, in Italia, sempre nella traduzione (aggiornata) di Elena Dal Pra, 25 anni dopo la prima edizione, sempre per Einaudi.
L’ultimo Samurai è la storia di una madre single (per scelta), un’americana non ricca, che ha studiato a Oxford, e che alleva in solitudine un bambino molto intelligente seguendo il modello del padre di John Stuart Mill, cioè insegnandogli il greco a tre anni, e poi l’ebraico, l’arabo, e facendogli leggere L’Odissea (in greco antico, ovviamente) sulla metropolitana di Londra o sui divanetti del British o della National Portrait Gallery. Il bambino, Ludo, impara da solo il giapponese, quando è costretto ad andare a scuola (a 6 anni, perché la madre non sapeva che doveva iscriverlo a 5) passa il tempo ad annoiarsi e si ritrova davanti insegnanti che dicono cose come “uno degli aspetti più importanti della scuola è imparare a far parte di un gruppo”, e orrori di altro genere.
I due, madre e figlio, guardano costantemente I sette samurai di Kurosawa (titolo che DeWitt voleva dare originariamente al romanzo). Il ragazzo, non sapendo che è suo padre, lo cerca, e come un samurai, va alla ricerca di sé stesso e di una figura paterna. La madre promette che gli dirà chi è il suo vero padre – uno scrittore di viaggio, mediocre ma celebre – solo quando lui imparerà a disprezzarne l’opera. «Non sarai pronto per conoscere tuo padre fino a quando non sarai in grado di vedere che cosa non va in queste cose».
I temi del libro si incrociano, senza dover usare strumenti meta, con l’idea del successo, della qualità artistica, della superiorità intellettuale. L’ultimo Samurai è un libro estremamente colto – soprattutto per gli standard di oggi, dove bisogna “spiegare tutto bene” – e le difficoltà che hanno madre e figlio di parlare con la gente curiosa che incontrano in metro non è diversa da quelle avute da DeWitt quando ha provato a vendere il libro agli editori. Dice a un certo punto il personaggio della madre: «Quello che voglio dire è che ho letto libri scritti 2000 o anche 2500 anni fa o 20 anni fa e che tra 2500 anni ci sarà bisogno di spiegare tutto perfino Mozart e che una volta che inizi a spiegare non è più finita».
È un libro, appunto coltissimo, accusato di essere snob, e in questo è l’opposto di un libro ammiccante costruito per il mercato (se vogliamo fare esempi opposti vengono subito in mente Hanya Yanagihara o Elena Ferrante, dove nessuno è mai spinto ad aprire la Treccani o Wikipedia o AbeBooks). È un libro forse elitario. Ci sono tavole di grammatica greca, frasi in islandese antico e molti kanji, oltre a una lista di autori e opere – dal Kalilah wa Dimnah all’ Ad Demonicum di Isocrate – da far contento un calassiano o un ginnasiale dotato, e termini precisi, richiami, citazioni, teoremi, parole complicate.
Ma è anche soprattutto un libro comico, divertentissimo, come spesso lo sono i libri molto intelligenti (appunto, Una vita come tante e L’amica geniale non sono libri divertenti, anzi, giocano sull’emozione facile di una pubblicità dell’Unicef). Un libro postmoderno nel suo senso più positivo. Come racconta anche Dal Pra nell’introduzione dell’edizione italiana, DeWitt ha sempre tenuto duro per mantenere il libro com’era, per evitare che editor – che, dice l’autrice, volevano far diventare il libro uguale alle uniche parti che piacevano a loro, e a ognuno piacevano parti diverse – ed editori inquinassero la sua opera, «non ha ceduto, sempre letteralmente, di una virgola. Al punto da arrivare all’orlo del suicidio». Come se non bastasse, tre anni dopo «il travagliatissimo parto redazionale», arriva in sala un film con Tom Cruise dallo stesso titolo e che, ovviamente, non c’entra niente, e non aiuta il romanzo.
La lotta di DeWitt è simile a quella, appunto, dei samurai, o dei grandi musicisti, o in generale di chi non vuole piegarsi al sistema, un misto di saggia disperazione e autodistruzione “per l’arte”, di chi non fa un libro all’anno o un testo per accontentare la lobby dei librai o gli amici della domenica o le booktoker. Non sappiamo se la storia di DeWitt finirà bene o male, è ancora presto per dirlo, ma la ripubblicazione del romanzo ci può dare un segnale che forse essere così intransigenti sulla propria opera alla lunga può essere un beneficio, se non altro per i lettori stufi di robaccia “tratta da una storia vera”.