Tovagliette — Acqua pazza

Più che un piatto è una tecnica di cottura, ma può essere vista anche come la sintesi culinaria perfetta per chi non sa decidere cosa fare da grande.

22 Luglio 2016

Credo di poter affermare con un discreto grado di certezza che la maggior parte di noi, a un certo punto della vita, ha immaginato di diventare tante cose contemporaneamente. Una vita in cui si vorrebbe essere fotografi, però si vorrebbe anche scrivere, e ti piacerebbe in fondo in fondo anche avere delle basi di mixologia. C’è chi vorrebbe lavorare coi bambini ma anche nell’arte contemporanea e un po’ vorrebbe fare anche marketing digitale. C’è chi vorrebbe fare arti plastiche, ma anche della musica elettronica, con una piccola tentazione verso il savoir-faire della lavorazione dell’ebano e dei legnami pregiati.
Poi, negli ultimi tempi, c’è anche qualche povero disgraziato che, oltre a cercare di essere scrittore, fotografo e chissà cos’altro, vuole anche fare il cuoco, o la cuoca.

In genere, molte di queste vocazioni divergenti si risolvono col tempo in una sofferta quanto inevitabile reductio, e la flotta di bastimenti partiti per la guerra dei (propri) vent’anni torna al porto più o meno decimata. E le altre vocazioni, quelle che non ce l’hanno fatta, rimarranno nei ricordi con un lontano rimpianto per le navi perdute. In termini gastronomici, questo tipo di approccio alla vita corrisponde a prendere una cosa, arrostirla un po’, brasarla per un istante, poi bollirla (però poco, e cuocerla infine al vapore dolcissimamente). Se si è fortunati, però, a un certo punto si trova la sintesi culinaria perfetta. In genere con dell’aglio, dei capperi, delle olive e dei pomodorini. Sto ovviamente parlando dell’acqua pazza.

Prima di tutto: l’acqua pazza non è un piatto, è una tecnica di cottura. Volendo, uno potrebbe cuocere all’acqua pazza anche una testina di vitello. Ultimamente mi sento però abbastanza tradizionalista, quindi vada per un’orata. Problema: l’equilibrio dell’acqua pazza (l’inaudita morbidezza delle carni, unita al gusto intenso della salsa) è possibile solo e soltanto se si cucina il pesce intero. Il pesce sfilettato rinsecchisce, s’indurisce, si sfalda. Tutto si tiene nell’acqua pazza, ma a condizione di rassegnarsi a inciampare nelle spine. Quindi, se si vuole trovare quella sintesi, bisogna comunque fare i conti con la spinosità delle vocazioni divergenti. Forse. O forse no.

Statemi bene a sentire e non impressionatevi, perché la ricetta è più facile a farsi che a scriversi. Prendete un’orata e sfilettatela (o fatela sfilettare dal pescivendolo). Con le teste e le lische potreste fare un brodo di pesce da utilizzare poi come “acqua” da far impazzire: ma non lo farete, quindi non sto a dilungarmi. Rimuovete con una pinzetta le lische rimanenti. A questo punto prendete un filoncino di buon pane, dal diametro comparabile alla dimensione del vostro filetto di orata (non c’è da impazzire, l’importante è non usare una baguette per un’orata da un chilo). Tagliate il pane a fette sottili, al massimo un centimetro: vi servirà una fetta per ogni filetto. Mettetele in una padella, a fuoco dolce, con abbondante olio e uno spicchio d’aglio in camicia: grigliate il pane da entrambi i lati finché non sarà dorato, al limite del bruciato.

Togliete il pane e mettetelo da parte. L’aglio lo potete lasciare lì. Nella stessa padella, a fuoco medio, aggiungete poi qualche cappero, molte olive e un po’ di peperoncino se piace. Poi aggiungete il filetto di orata, ovviamente sul lato della pelle. Poi aggiungete i pomodorini: incideteli con la punta di un coltellino e spremeteli nella padella. Non vi preoccupate del tempismo, i tempi di cottura equivalgono al tempo necessario a compiere ciascuna delle operazioni. Fate una cosa dopo l’altra e tutto andrà bene (senza pause sigaretta, magari, ecco). Una volta finito coi pomodorini aggiungete del vino bianco. Non c’è una quantità definita: l’importante è che il filetto non sia interamente sommerso. Un pizzico di sale. A questo punto avete arrostito, brasato, e bollito il vostro filetto.

Il vostro filetto, però, non è cotto, la carne è ancora rosa. E qui viene il bello. Togliete la padella dal fuoco, prendete la vostra fetta di pane arrostito e appoggiatela sulla carne rosa del filetto. Poi, con un cucchiaio o con una spatola da pesce, ribaltate con un gesto deciso il pesce, in modo che il filetto resti appoggiato sul pane, leggermente sollevato dalla padella. Rimettete la padella sul fuoco e aggiungete poca acqua, in modo da sommergere il pane ma senza toccare il pesce. Alzate il fuoco al massimo, e dopo altri 4-5 minuti prendete pane e pesce con la spatola e metteteli nel piatto. L’altro lato del pesce sarà cotto al vapore, e rimarrà morbido e succoso proprio come l’acqua pazza fatta col pesce intero. Continuate a ridurre l’acqua per qualche istante, fino a quando sarà densa e succulenta. Recuperate col cucchiaio tutto quello che c’è nella padella e riversatelo sul pesce, nel piatto. Aggiungete pepe, un filo d’olio e tanto prezzemolo. Mangiatelo e vi renderete conto che la vita può essere tenera e senza spine anche se è arrostita, brasata, bollita e cotta al vapore.

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