Per i nomi che lo producono, per il regista che lo dirige e soprattutto per la storia vera che racconta: quella di una bambina di 6 anni, morta a Gaza.
Secondo gli scienziati, il cervello umano non se la cava bene con i numeri. In senso astratto li comprende, ne intuisce la portata, ma all’atto pratico la sua struttura, che intreccia raziocino ed emotività, finisce per reagire con più forza a un singolo esempio che non all’enormità di un numero che sulla carta dovrebbe essere infinitamente più scandaloso e devastante. È per questo motivo che organizzazioni come l’Unicef, quando comunicano che oltre diciottomila bambini sono morti nei primi ventun mesi di guerra a Gaza, fanno seguire il dato statistico a un esempio “in scala ridotta”: è come se ogni giorno morisse una classe di ventotto bambini. È un’immagine più contenuta, concreta, che rende più tangibile la drammatica portata del dato macroscopico.
È per come funziona il nostro cervello che The Voice of Hind Rajab è una visione così straziante, tanto da aver ridotto le platee del Mostra del cinema di Venezia a singhiozzare vistosamente già a metà film. Quella di Hind è solo una delle decine di migliaia di storie che si potrebbero raccontare, ma inchioda lo spettatore a una comprensione senza scampo con un singolo volto, un nome, una foto. Oltre, ovviamente, a una voce.
Una voce
È la voce autentica della piccola Hind a fare da fondamento al film, diretto dalla regista tunisina Kaouther Ben Hania. Ogni narrazione, riflessione e commento possibili sono già tutti dentro quei settanta minuti di chiamata alla Mezzaluna Rossa in cui una bambina gazawi di cinque anni spaventata, ferita e intrappolata in una macchina assieme ai cadaveri dei suoi familiari passa dalla convinzione che questi ultimi stiano dormendo alla consapevolezza della loro morte, e dell’imminenza della propria. La sua urgenza diventa implorare che qualcuno vada a salvarla.
Utilizzare la vera voce di Hind Rajab potrebbe esporre il film all’accusa di avere un approccio manipolatorio nei confronti del pubblico o di fare pornografia del dolore. Ma è proprio il fatto che sia la vera voce di Hind a chiedere ai soccorritori di sbrigarsi perché ha paura del buio è la contro argomentazione perfetta. Non è un’attrice che piange guardando in camera, non è un’opera di finzione nata dalla volontà di sensibilizzare il pubblico che ricorre all’immagine (potente, ma c’è bisogno di dirlo?) di una bambina di cinque anni intimorita dall’idea che stia per calare il buio. È la voce di una vera bambina, così piccola che ancora non può nemmeno andare a scuola, bloccata per ore in una macchina circondata dai carri armati israeliani. Una bimba che ha paura del buio perché è la paura più normale che ci sia, alla sua età. Tutta la storia di Hind Rajab, anche in risposta a chi l’aveva definita una falsificazione, è stata minuziosamente ricostruita dai giornalisti: su Forensic Architecture trovate forse il reportage più completo e terrificante di tutta la vicenda.
Lo spazio per la finzione però c’è, perché The Voice of Hind Rajab non è un documentario e neppure esattamente una ricostruzione, pur avendo un approccio parzialmente cronachistico. È un gruppo di attori a reagire alla voce della piccola, a interpretare la squadra di turno quel 29 gennaio 2024 al centralino della sede della Mezzaluna rossa di Ramallah, persone che per ore tentano di trovare il modo di salvare la piccola.
Grazie alle interazioni degli attori e a una scrittura volutamente semplificata e didascalica viene così ricostruito la crudele burocrazia che impedisce ai soccorsi di raggiungere la piccola, anche se la squadra più vicina è appena a otto minuti di distanza. È quasi pedante, il film, nello spiegarci, con disegni a pennarello sulle vetrate degli uffici e dialoghi impostati, il complesso sistema per cui per mandare un’ambulanza nella zona occupata bisogna contattare il ministero della Salute in Cisgiordania o la Croce Rossa internazionale, che a loro volta trattano un percorso sicuro per i mezzi di soccorso che – in linea del tutto teorica, come dimostra questa storia – seguendo questo percorso possono salvare i civili intrappolati senza farsi sparare addosso. Insomma, sono le stesse autorità che ordinano di sparare sulla macchina della famiglia Hamadeh oltre 350 colpi a dover dare il lasciapassare ai mezzi che proveranno a salvare l’unica sopravvissuta ancora a bordo dell’auto.
Né fiction né documentario
The Voice of Hind Rajab è dunque un’opera di finzione in cui viene ricostruita la reazione dei soccorritori, la frustrazione, il senso d’impotenza, l’enormità del dover spiegare a una bimba impaurita che deve aspettare i soccorsi, ancora e ancora. Solo che non è semplice tracciare un confine tra le lacrime finte previste dal copione e quelle vere versate dagli interpreti, che volutamente hanno aspettato di essere sul set per riascoltare quel drammatico audio. Alcuni di loro sono cresciuti a Gaza, altri conoscono la situazione attuale da vicino, per tutti è una questione personale
The Voice of Hind Rajab fa un ulteriore passo narrativo in avanti, rimanendo nella zona di confine tra documentario e fiction. Nel passaggio più memorabile del film, la regista fa apparire un braccio da fuoricampo che inquadra con lo smartphone i soccorritori al telefono con la bimba. Ai volti degli interpreti viene sovrapposto, sullo schermo del telefono, un filmato con i veri soccorritori, pubblicato durante il tentativo di salvare Hind proprio dalla Mezzaluna Rossa sui social, in diretta, nella speranza di suscitare un clamore tale da sbloccare la situazione. È la scelta consapevole di una regista secondo cui «i confini tra documentario e finzione sono istituzionali, non reali. Sono come le frontiere nel mondo: linee immaginarie che non esistono. Credo che proprio superando questi confini si possa innovare».
Concentrarsi sul giudizio cinematografico di un’opera che racconta questa storia, con queste premesse, può sembrare un fatto di rara insensibilità. Invece è necessario e giusto puntualizzare dettagli come il fatto che The Voice of Hind Rajab ha sì una confezione un po’ scarna e non sempre rifinita, figlia dell’urgenza di raccontare la sua storia il prima possibile. Tuttavia, è un film che se non fa qualcosa di pionieristico in campo artistico, ci va molto vicino.
Leone d’oro
Non è certo la prima volta che un frammento di cronaca nera reale viene inserito all’interno di un’opera fittizia, ma solitamente questo genere di commentario cinematografico arriva a bocce ferme, riflessione su ciò che è stato, valutazione ex post di un evento concluso. The Voice of Hind Rajab ha l’istantaneità del presente, di questo presente, che accorcia sempre più le finestre di reazione cinematografica agli eventi della storia e della cronaca. Non ha in sé un commento politico, un’istanza, una presa di posizione. Eppure lo straordinario equilibrio emotivo della sua narrazione e la consapevolezza che mentre le immagini scorrono sullo schermo, in quello stesso momento, un’altra Hind potrebbe essere al telefono con i soccorritori, bloccata nella Striscia, non può non avere conseguenze pesanti sullo spettatore.
In queste ore The Voice of Hind Rajab viene dato come vincitore certo del Leone d’Oro, non solo per la qualità della pellicola, ma perché è difficile immaginare di contrapporle qualsiasi altra storia. Rischia però di passare in secondo piano come sia così straziante anche per le scelte coraggiose e tutt’altro che convenzionali fatte dalla sua regista. The Voice of Hind Rajab si merita il Leone (e gli Oscar) che con tutta probabilità finirà per vincere. Per la straordinaria portata emotiva della sua storia e per i grandissimi meriti cinematografici di chi ha deciso di girare questo film con quella voce, con quegli interpreti. E, soprattutto, adesso.

È uno dei giovani festival più interessanti degli ultimi anni, perché mescola arti visive e cinema e ha un programma tanto selezionato quanto “estremo”. Ne abbiamo parlato con Sam Stourdzé, direttore dell’Accademia di Francia in Italia, che del festival è l’organizzatore.