L'opera prima di Giulio Bertelli, presentata alle Settimane della critica a Venezia e distribuita in sala da Mubi, mescola fiction e documentario per raccontare tutto il sangue, il sudore e le lacrime nelle vite di tre atlete.
The Mastermind è uno di quei film difficili da raccontare a chi non l’ha visto. Perché è uno di quei film che non parlano davvero di qualcosa, che non raccontano una storia vera e propria. Dopo la prima allo scorso Festival di Cannes, è stato descritto in modi tutti assai diversi e tutti molto sbagliati. Crime thriller, lo si è chiamato. Ma in tutto il film di crimine ce n’è a malapena uno, talmente sconclusionato e ridicolo che viene difficile definirlo tale. Thriller, non parliamone neanche: in The Mastermind non c’è alcun brivido, né caldo né freddo, solo una serie di sfortunati eventi così piccoli e patetici da sembrare innegabilmente veri (e in effetti il film è basato in parte su una storia vera, la rapina al Worcester Art Museum in Massachusetts del 1972, quello sì un crime thriller). Heist movie, lo si è definito, The Mastermind. Ma semmai è il contrario di un heist movie: un Ocean’s Eleven in cui Danny Ocean è un dilettante, un Le iene in cui le iene sono i nostri vicini e dirimpettai, un Now You See Me in cui J. Daniel Atlas sbaglia tutti i trucchi di magia, un Lupin in cui Lupin è un deficiente.
Se il film è così difficile da raccontare a chi non l’ha visto la colpa (il merito, in realtà) è della regista Kelly Reichardt, ovviamente. The Mastermind, l’ha chiamato, dimostrando ancora una volta, per l’ennesima volta, di avere uno splendido senso dell’umorismo, probabilmente il miglior senso dell’umorismo del cinema indie americano (c’è tutta la sua filmografia a dimostrarlo oltre ogni ragionevole dubbio) di cui è la madre nobile. Il protagonista di The Mastermind è tutto tranne che un mastermind, un parola che in italiano non ha una traduzione esatta ma che assume sempre diverse sfumature di genialità e diabolicità a seconda del contesto (in questo contesto si potrebbe tradurre con “genio del crimine”).
Cos’è un genio
James Blaine Mooney (Josh O’Connor) è probabilmente la persona peggiore del mondo ma certamente non è né geniale né diabolico. È pigro ed è infantile ed è viziato ed è egocentrico ed è inaffidabile, ha una moglie e due figli ma ancora accetta i cazziatoni di papà e chiede i soldi di nascosto alla mamma, in attesa che il mondo si accorga di quanto è bravo a costruire mobili di design che nessuno vuole. Vive negli Stati Uniti degli anni ’70, quelli della controcultura che sfioriva e della repressione che montava, delle proteste nelle università e delle marce per strada, ma per lui il mondo è solo un’immagine alla tv, una voce alla radio, una fotografia sul giornale: a quanto pare non gli interessa niente di niente, non sa nulla di nulla. È questo il genio del crimine che Reichardt ci propone come protagonista del suo anti-crime thriller, di questo reverse heist movie, un soggetto così derelitto che lei stessa lo prende in giro: vediamo che sai fare, genio.
Un giorno, James si convince che il suo museo preferito sarebbe facile facile da svaligiare, vista la laschissima e sonnolentissima sicurezza impiegata. E così decide di farlo davvero, questo furto. E miracolosamente ci riesce pure, a farlo: si porta a casa – letteralmente – ben quattro quadri di Arthur Dove. Questo è ancora il punto in cui The Mastermind sembra una di quelle cose di cui si diceva prima, un crime thriller, un heist movie, anche se delle riserve già ha senso avercele: ma quando mai si è visto un ladro che si fa cucire a macchina dalla moglie i sacchi in cui mettere la refurtiva? Ma quando mai si è vista una banda che impiega più tempo ad aprire il bagagliaio della macchina che a sottrarre il malloppo?
Ma non appena James porta la refurtiva a casa, il dubbio passa definitivamente: il genio del crimine non sa che farsene, delle opere d’arte che ha rubato. È chiaro che non sa che farsene e soprattutto era chiaro sin dall’inizio. Tanto che a un certo punto, in una delle scene più divertenti e surreali del film, lo si vede mentre appende uno dei quadri rubati alla parete del salotto di casa sua. E viene davvero da chiedersi, in quel momento, se non l’abbia fatto per quello, se non si sia messo a fare il ladro di opere d’arte semplicemente perché aveva voglia di dare una rinfrescata all’arredamento del salotto di casa, di pavoneggiarsi con il padre trombone che rivendica il suo diritto a non capire né apprezzare la pittura astratta.
La madre nobile del cinema indie americano
La grandezza di The Mastermind sta nel rendere accettabile una domanda del genere (assurda, se davvero questo fosse il film che il suo stesso titolo suggerisce), sta nell’insinuare che non è da escludersi che sia così, che possa essere così, perché chi può sapere cosa passa per la testa di una persona in certi momenti? La grandezza del film sta nel mettersi in una posizione così scomoda, senza però mai cadere nella commedia o parodia o satira. The Mastermind resta un film “serio” per tutto il tempo, uno di quegli adult movies tanto cari a Sean Baker e Richard Linklater, seriamente preoccupato e interessato alle inspiegabili, incomprensibili peripezie del suo protagonista, e all’indagine sulle stesse. Ci riesce, a restare serio, anche grazie alla coltissima e ricchissima regia di Reichardt, spesso definita regista minimalista da chi pensa che i movimenti di camera e gli stacchi di montaggio siano le uniche quantità che un regista può accumulare in un film. Nella regia di The Mastermind Reichardt è riuscita a mettere e a tenere assieme: Quel pomeriggio di un giorno da cani di Lumet, Il lungo addio di Altman, L’amico americano di Wenders, le fotografie di William Eggleston e Stephen Shore, i vestiti di Jasper Johns, l’astrattismo di Arthur Dove, lo “stile Polaroid” della fotografia di Christopher Blauvel e il jazz della colonna sonora di Rob Mazurek. Minimalista, la chiamano.
Josh O’Connor, beautiful loser
Tornando alla domanda alla quale The Mastermind prova a rispondere pur sapendo che la risposta sfuggirà: chi può sapere cosa passa per la testa di James Blainey Mooney, art school dropout, figlio di un giudice, marito e padre, mentre si rovina la vita per una ragione che fino alla fine resta sconosciuta, a lui e a chi lo guarda, alla sua famiglia che lo abbandona e al pubblico che lo segue? «Tre quarti delle cose che ho fatto le ho fatte per la nostra famiglia», spiega al telefono all’esasperata moglie Terri, in uno degli scambi più brillanti e sconsolati del film. Subito dopo le chiederà di fargli un bonifico, o di chiedere a sua madre di fargliene uno («A te non dirà di no»), perché gli servono i soldi per continuare a sfuggire alla polizia che gli dà la caccia. Questo è il momento di sottolineare la bravura di O’Connor, soprattutto quando si tratta di interpretare questi beautiful losers. Arthur nella Chimera, Patrick in Challengers, qui James, interpretazione che vale come un dottorato in questa disciplina (per capire quanto è bravo un attore, un modo semplice è vedere quanto è bravo a star fermo a guardare il vuoto: O’Connor è bravissimo in questo, soprattutto in questo film).
Si capisce la grandezza di The Mastermind solo dopo aver capito che il film non è e non sarà nulla di quello che avrebbe senso aspettarsi. Reichardt lo aveva anche detto, in un’intervista concessa a Vogue, che non voleva fare un film di genere – ne ha fatti tanti, nella sua carriera, senza mai farne davvero – ma usare il genere come pretesto per mettere un personaggio in una situazione estrema e vedere che tipo di «unraveling film» ne sarebbe venuto fuori. Unraveling, altra parola difficile da tradurre in italiano: può essere la matassa che si dipana o la situazione che sfugge di mano, quindi il ritorno all’ordine o il moltiplicarsi del disordine.
Nel caso di The Mastermind è entrambe le cose: per capire cosa stia succedendo, cioè cosa stia succedendo al protagonista James, l’unica maniera è seguirlo mentre perde il controllo sul mistero buffo che è la sua vita da fuggitivo, cercando di capire assieme a lui com’è possibile che una persona che la domenica mattina era a visitare il museo con la famiglia, il lunedì sera si ritrovi a scippare una vecchietta in un vicolo. Non che la risposta a questa domanda arrivi facile, se arriva: come nei migliori character studies, Reichardt non ha spiegazioni né esposizioni da dare, non poggia il suo film su nessuna mitologia né regala al suo protagonista alcun background, limitandosi, in un senso qui sì minimale, ad osservare. Forse un tempo James aveva un sogno e ora non ce l’ha più (e qui c’è chi ha voluto vedere un commento di Reichardt sull’America oggi), come i personaggi minori e tragici che popolano la sua fuga. Forse è per questo che si è messo a fare il ladro. Le ragioni e gli scopi di James rimangono un mistero fino alla fine, però. Ed è proprio per questo che The Mastermind è uno dei film più sorprendenti visti quest’anno.

 
     
     
     
     
     
     
    