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Tutti stanno osannando The French Dispatch

Nonostante sia piuttosto difficile credere che The French Dispatch alla fine sia uscito, è successo. Se ne parla da talmente tanto che con molta probabilità alcuni di noi potrebbero essersi persino stufati della solita estetica di Wes Anderson. In America intanto, dove il film è arrivato in sala, la maggior parte delle testate lo sta osannando, definendolo in alcuni casi il più inusuale e interessante film del regista.

Secondo il New York Times, la bellezza del film risiederebbe nell’omaggio dettagliato e «prezioso» che il regista ha fatto dei collaboratori del New Yorker e del giornale stesso, la cui estetica è una costante stilistica del lungometraggio (non a caso il team della comunicazione che si occupa della promozione del film ha realizzato dei poster di The French Dispatch ispirati alle copertine del New Yorker). «Il film non è la versione di Spotlight di Wes Anderson, in cui giornalisti assumono eroicamente posizione di potere contro ingiustizia e corruzione. Ciò che The French Dispatch celebra è qualcosa di più specifico del “fare solo cronaca”, perché Anderson ha scritto un omaggio dolcissimo al New Yorker nei suoi anni di gloria della metà del XX secolo che è, allo stesso tempo, un ardente, quasi orgiastico inno ai piaceri della stampa in generale», ha scritto A.O. Scott. Secondo il Washington Post è «così bello e malinconico da fare male, e ci ricorda tutti i motivi per cui ci piace Wes Anderson», mentre per Slate è come una «dolce e raffinava qualità di liquirizia scandinava gourmet». Paragonando la filmografia del regista alla caramella più polarizzante al mondo (o la ami o ti fa schifo), Dana Stevens scrive infatti: «Le immagini di Wes Anderson, anche quelle meno accattivanti, sono oggetti da collezione, giocattoli meticolosamente realizzati per essere allineati e riorganizzati come le miniature che ama inserire nei suoi film», e qui ci sono tutti i suoi tic, ma sono talmente estetizzati e portati al limite che «The French Dispatch è strutturato come il numero di una rivista sul New Yorker ma anche su Wes Anderson, da tenere sul tavolino».

«Il decimo lungometraggio di Anderson sembra fatto su misura per attirare gli amanti del cinema che apprezzano anche l’arte del giornalismo cartaceo», scrive Little White Lies. «Anderson ha indicato il New Yorker come la sua grande ispirazione, e questo traspare senza mai sembrare nulla di troppo estraneo o pretenzioso per coloro che non hanno familiarità con la rivista. Il film riesce a ritrarre quello spirito con il tipo di dialogo arguto e intricato che ci si aspetta da questo regista di talento, intrecciato con trame memorabili che non sembrerebbero fuori luogo se raccontate in un magazine intellettuale». Già lodato da Variety a luglio, quando il film aveva fatto la sua prima apparizione al festival di Cannes e solo in pochi erano riusciti a vederlo («un film non convenzionale, che riesce a fornire quel particolare piacere di leggere un numero di una rivista ben curato dalla prima all’ultima pagina»), così come dal Guardian che gli aveva dato 4 stelle su 5 elogiando la scenografia (ne parlavamo qui), per vederlo in Italia dovremo aspettare ancora qualche settimana, considerando che arriverà in sala solo l’11 novembre.