Stili di vita | Cinema
Tenet è una rivendicazione di eleganza in un mondo di tute
Una riflessione sull’importanza degli abiti nel film di Christopher Nolan.
Una scena da Tenet, il nuovo film di Christopher Nolan
La copertina del New York Times Magazine del 9 agosto 2020 è una specie di manifesto per quello che il mondo sta vivendo da cinque mesi: che non è soltanto il lockdown, ma anche il lavoro da casa, la scuola da casa, lo yoga da casa… Qualsiasi cosa, più o meno, che un tempo si faceva non da casa, però adesso da casa. Mostra un paio di pantaloni di felpa, soffici, confortevoli anche soltanto alla vista nella loro tinta verdolina; sono attaccati a un’asta tipo bandiera, e sventolano al vento. La scritta sotto dice: Sweatpants forever.
Di tutte le cose che la pandemia, e il nostro rintanarci in casa, hanno cambiato, l’abbigliamento sembra essere uno degli argomenti su cui si è più felicemente discusso. Apparentemente – ma il polso dell’apparenza è sempre quello di internet – una discreta fetta di mondo non vedeva l’ora di vivere in pantaloncini da ginnastica e felpe oversized, oppure, per le case più fredde, calzettoni di cotone e tute di pile tipo astronauti ma morbidini.
Perché non vestirsi con qualcosa di estremamente comodo, d’altra parte, se non c’è nessuno a vedere quello che mettiamo? Perché non fa bene, direbbe Karl Lagerfeld, che descrisse i pantaloni della tuta come «il segno di una sconfitta»: «Hai perso il controllo della tua vita, e quindi hai comprato dei pantaloni di felpa». A guardare Tenet, l’evento cinematografico dell’anno, pare che Christopher Nolan la pensi allo stesso modo. Mentre John David Washington e Robert Pattinson si spostano segretamente dal presente al passato, e forse anche nel futuro (dipende da dove lo si guarda, immagino), mentre fanno inseguimenti in auto trasportando armi di distruzione di massa e sparano, naturalmente, e cercano di non essere uccisi, mentre si fanno ricevere dalla più grande commerciante d’armi del mondo e invitare a cena dal magnate del plutonio di contrabbando, sono abbigliati in outfit impeccabili e molto, molto formali. I costumi sono di Jeffrey Kurland, già con Nolan in Inception e Dunkirk, e all’opera anche nell’elegantissimo Ocean’s Eleven.
Sopravvissuti a una primavera e a un’estate trascorse in casa in preda alla dittatura del leisurewear, gli abiti dei due protagonisti appaiono, alle porte dell’autunno, come un’isola di piacere e bellezza, quasi un balsamo dello spirito, a cui aggrapparsi per attraversare in pace i duecento minuti di azione del film.
Pensare a un action movie con un protagonista in abiti non ideati primariamente per il comfort di ammazzamenti e fughe farebbe immediatamente associare Tenet a James Bond, eppure l’agente segreto, anche nelle sue versioni più vintage, risultava comunque più tecnologico dei protagonisti di Nolan. Il workwear di Bond è pratico, e quello che era uno smoking all’apparenza si rivelava, in realtà, un’armatura, o uno scudo termico, o il camuffamento di una struttura pensata per il volo umano. Un orologio non è mai un orologio, ma può rivelarsi facilmente un aggeggino per invertire la polarità magnetica. A ben vedere, più che una spia elegante, Bond è il non plus ultra dello utility wear.
In Tenet, niente di tutto questo. Gli abiti sono abiti, nessun accessorio è in dotazione, e per non regalare nulla alla sciatteria, John David Washington abbina, all’abito gessato con cui si troverà a schivare proiettili invertiti, anche un panciotto grigio. È elegante anche mentre viene minacciato di morte dal malvagio antagonista russo, con la polo portata impeccabilmente sotto il blazer. Robert Pattinson, invece, è più formale ma in un certo senso più originale. Affronta i combattimenti in doppiopetto, e quando ha freddo si ripara con un’elegante sciarpa che lo fa somigliare a una specie di Pete Doherty in forma e ricorda, infatti, il Dior Homme di Slimane. Chi invece è vestito evidentemente male, con abiti troppo troppo attillati per cadere bene sulle pieghe dei corpi, sono soltanto i cattivi, e soprattutto le guardie del corpo di Andrei Sator, con dei giromanica, forse, troppo stretti per picchiare come si deve.
Il mondo forse è davvero destinato allo smartworking in tuta, alle conference call in mutande sotto il mezzobusto incamiciato, ma Nolan, in Tenet, prova un atto di resistenza. È la rivendicazione dell’importanza del sartoriale in un mondo che è minacciato dalla dittatura della tuta, ma volendo esagerare (se c’è di mezzo Nolan vale tutto) è anche qualcosa di più: l’affermazione della possibilità di un controllo in un momento dominato dal caos, il mantenimento di un’identità nell’omologazione portata dal disordine. Una bella cravatta, la camicia giusta.