Teen Vogue è morto, e neanche il giornalismo si sente tanto bene

La chiusura del giornale premiato per come parlava ai giovani di politica, diritti civili, crisi climatica e femminismo è un sintomo forte e molto negativo dello stato di salute del giornalismo.

14 Novembre 2025

Quando il 3 novembre è stata ufficialmente annunciata la “ristrutturazione” di Teen Vogue (cioè la sua sostanziale chiusura, e l’assorbimento da parte della rivista madre, di proprietà di Condé Nast, qui c’è il comunicato ufficiale dell’editore), Elaine Welteroth ha affidato le sue riflessioni a un post di Instagram. «Teen Vogue è stato un esperimento di quelli che si fanno una volta in una generazione: è quello che succede quando dai il microfono a persone giovani con background diversi e prendi sul serio le loro voci. Perdere la redazione del giornale non è soltanto una decisione di business, è una perdita culturale in un momento nel quale abbiamo bisogno più di sempre di un giornalismo affidabile». Un’amarezza che non è solo della Welteroth, tra le ex direttrici del magazine (la più giovane a ricoprire quel ruolo in tutta la storia dell’editore, a 29 anni, e la seconda afro-americana), ma che in questi giorni è stata condivisa in maniera trasversale anche da testate di tutt’altro tipo, che hanno registrato la notizia catalogandola come “il completamento della ritirata di Condé Nast dalla politica” (Business of Fashion). La notizia non è rimbalzata molto sui media italiani (fatta esclusione per l’Ansa che ha titolato “Sparisce Teen Vogue, troppo politico per Condé Nast”) anche per via del fatto che la rivista è sempre stata presente solo sul mercato statunitense, dal 2003. E anche se nel 2017 il giornale aveva smesso di essere pubblicato nella sua forma cartacea, limitandosi ad una presenza online, la sua epopea è stata molto diversa da quella di titoli similari, proposti da altre case editrici per intercettare un pubblico più giovane: Elle Girl, Teen People, Cosmo Girl, tutti chiusi da tempo. 

Vivian Wilson, il canto del cigno

In una delle ultime cover online di quest’anno, a essere protagonista, ad esempio, era Vivian Wilson, figlia di Elon Musk e della sua prima moglie Justin Wilson, che non intrattiene più nessun tipo di rapporto col padre, per via principalmente della sua identità di donna transgender. L’intervista, circolata molto online, non ha nulla a che vedere con i profili zuccherosi e sostanzialmente innocui che di solito si scrivono quando si parla con una giovane ventenne famosa per via della sua presenza sui social e per il suo corredo genetico: Wilson parlava di politica, della crisi ambientale, del divario sociale ed economico che si va via via inasprendo, del diritto alla casa e via discorrendo. Una linea editoriale che il giornale aveva sposato già da una decade, quando, proprio sotto la direzione di Weltheroth e di Phillip Picardi come direttore del sito, Teen Vogue iniziò a interessarsi di politica, diritti civili, emergenza ambientale e femminismo. In questo senso “il prima” e “il dopo” fu segnato da un op-ed (il contraltare italiano del pezzo d’opinione) scritto nel 2016 da Lauren Duca, dal titolo “Donald Trump is gaslighting America, un’aspra critica al tentativo del presidente, durante il suo primo mandato, di erodere le libertà personali e costituzionali sulle quali gli Stati Uniti si basano. Quel pezzo ebbe una risonanza mediatica mondiale, e venne rimbalzato più o meno su tutti i siti di informazione, anche probabilmente per lo stupore che un magazine parte di una casa editrice che possiede principalmente giornali patinati (ad eccezioni di titoli come Wired o The New Yorker) potesse esprimere posizioni politiche. 

Sophie Gilbert dell’Atlantic scrisse che «il cambio di strategia editoriale ha ricevuto apprezzamento sui social media, con alcuni giornalisti che commentavano che Teen Vogue sta facendo un lavoro migliore di tanti giornali titolati nel coprire le storie più importanti del 2016», mentre Mark Joseph Stern su Slate asserì che si trattava di un «giornale patinato con una copertura politica e un’analisi legale sorprendentemente buona, dedicato a teenager che – in maniera scioccante! – sono capaci di pensare simultaneamente alla moda e alle questioni contemporanee».

Non giovani clienti ma lettori e cittadini in erba

E forse, anche per via di quell’insperato successo, al contrario di pubblicazioni rivolte allo stesso gruppo d’età, e che si concentravano su articoli di attualità legati alle relazioni, alle problematiche sessuali o sentimentali che possono incontrare teenager e giovani adulti, Teen Vogue ha dedicato ampio spazio alla questione climatica, ai diritti LGBTQIA+, l’immigrazione, Black Lives Matter, o anche al debito studentesco (problema assai annoso per gli studenti statunitensi), senza dimenticarsi ovviamente del lifestyle, della vita delle celebrity e degli abiti da red carpet. Una tradizione mantenuta anche dalle direttrici che sono venute dopo Welteroth, ossia Lindsay People, che arrivava dal The Cut, e poi dall’attuale Versa Sharma, approdata a Condé Nast da Now This, canale progressista con 2 milioni di follower su YouTube, focalizzato proprio sulla Gen Z. E da Now This Sharma aveva conquistato nel 2018 l’Edward R. Murrow Award – un premio conferito dal 1971 dalle associazioni di radio, televisioni e news digitali – per un suo documentario sull’uragano Maria a Porto Rico. La stessa Sharma, che oggi ha lasciato il suo posto da direttrice – preso dall’erede di Anna Wintour, Chloé Malle, incaricata di includere i contenuti del giornale nella piattaforma più ampia di Vogue – ha commentato su Instagram: «Sono incredibilmente orgogliosa del lavoro che abbiamo fatto e di quello che abbiamo raggiunto. Abbiamo vinto premi, abbiamo messo facce diverse sulle nostre copertine, abbiamo esplorato ogni argomento, dalla sostenibilità nella moda alla lotta per il diritto all’aborto e abbiamo cercato di dare voce e spazio a persone che stavano cambiando il campo da gioco in diversi ambiti. Abbiamo raccontato storie che nessun altro raccontava, perché sappiamo quanto sia importante essere visti».

E forse è stato davvero questo il merito maggiore di Teen Vogue: quello di aver trattato una fetta di pubblico spesso bistrattata dalla politica, costantemente sminuita dalle generazioni precedenti, come un interlocutore meritevole di attenzione, con il quale intavolare un rapporto basato sull’onestà intellettuale: non solo un cliente dal quale suggere investimenti o da dirottare su questo o quel prodotto da acquistare, quanto un cittadino in erba, al quale offrire prospettive inedite sulle tematiche che a quella fetta anagrafica stanno più a cuore. 

Basta politica, più intrattenimento

E, almeno sui social e online, dove Teen Vogue era presente, quell’approccio ha ripagato. Secondo il Business of Fashion dal 2016 in poi, Teen Vogue è costantemente cresciuto nel traffico sul sito, passando ad esempio da 2,9 milioni nel gennaio 2016 a 7,9 milioni nel Gennaio 2017 (in concomitanza con l’anno della svolta politica e dell’ampliamento degli argomenti affrontati). Secondo Com Score, agenzia statunitense che misura i dati dei media a livello globale, la sezione del sito dedicata alla politica aveva superato in traffico la sezione dedicata all’intrattenimento, divenendo quella più letta della piattaforma. E però, proprio la sezione politica pare essere la grande assente di questo “assorbimento” da parte della rivista madre: per questo motivo la NewsGuild of New York (sindacato che si occupa dei diritti dei giornalisti della città) e Condé United (sindacato dei lavoratori di Condé Nast), all’alba della chiusura del titolo hanno fortemente criticato Condé Nast, asserendo, in un comunicato congiunto che «Teen Vogue ora non ha più redattori o giornalisti che si occupino esplicitamente di politica. La direzione intende licenziare sei dei nostri membri, la maggior parte dei quali sono donne o persone trans e di colore, inclusa la redattrice politica di Teen Vogue».

Certo, negli ultimi anni, in un tentativo di resistere alla crisi del mercato editoriale, Condé Nast ha chiuso diversi titoli cartacei, diminuito l’influenza dei direttori dei magazine (che non sono più direttori ma head of content, lasciando molto campo libero alla sede centrale statunitense, e quindi ad Anna Wintour). E anche se Teen Vogue era una piattaforma online con dei costi di molto minori rispetto a quelli che richiede il mantenimento di un giornale cartaceo, è evidente l’intenzione dell’editore di volersi ampliare nei significati: non più solo casa editrice, ma anche media di intrattenimento (in questo senso vanno i mega eventi di Vogue World, show pantagruelici dei quali nessuno nel mondo dell’editoria ha ancora ben chiaro il senso generale, tranne che quello di mostrare al mondo e agli investitori la potenza del proprio network). 

Dal premio ai licenziamenti in soli due mesi

Ad oggi continuano le lotte sindacali: Variety ha riportato che, la settimana scorsa, per via di una richiesta di alcuni giornalisti e rappresentanti sindacali di avere più delucidazioni e informazioni rispetto ai licenziamenti che stanno proseguendo all’interno dell’azienda, compresi quelli di Teen Vogue, l’azienda stessa ha reagito con i licenziamenti dei 4 dipendenti che si erano presentati alla porta del responsabile del personale, citando «una condotta estremamente negativa» (sono Alma Avalle, scrittrice e producer di Bon Appetit, Jake Lahut, senior reporter di Wired che segue la presidenza Trump, Jasper Lo, senior fact checker al New Yorker e Ben Dewey, videografo da Condé Nast Entertainment).

Eppure solo due mesi fa il giornale era stato premiato dal Roosevelt Institute con “la medaglia 2025 per la Libertà di Parola” perché, nelle parole dell’Istituto condivise negli scorsi giorni «la redazione ha capito che quella libertà vuol dire affrontare apertamente il potere». La decisione di Condé Nast di includere questa pubblicazione all’interno di Vogue e licenziare lo staff che si occupa di politica rende evidente che la concentrazione del mercato, dominato da un piccolo numero di grandi aziende, elimina le idee innovative e silenzia le voci con meno potere. 

Così tanti giovani oggi si sentono ignorati e privi di voce in ogni ambito delle loro vite – dai legislatori che non rappresentano la loro generazione, ai vecchia media che minimizzano le loro difficoltà, passando per gli spazi online che cercano solo di trarre profitto dalla loro attenzione. Teen Vogue ci ha mostrato un’altra via: non giornalismo che è solo meritevole di fiducia o che spinga a delle riflessioni, ma anche che ascolti le priorità dei giovani. Teen Vogue ha collegato i puntini tra le questioni che sono importanti per loro e le scelte politiche che quelle questioni le affrontano. Ma in effetti oggi non sembra che ai grandi nella stanza, di tutto questo importi qualcosa.

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