José Tolentino de Mendonça, prefetto per il Dicastero per la Cultura e l’educazione del Vaticano, ha definito Lux «una risposta a un bisogno profondo nella cultura contemporanea».
Se non fosse per i lego dei personaggi, per i funko pop che si fanno mini e si trovano anche negli ovetti Kinder, per le sorprese dentro all’happy meal, i caldoplaid, le felpe e i calzini di Primark, le tazzine e le tazze che cambiano colore con le bevande caldissime o freddissime, la moka che suona la sigla della serie non appena è pronto il caffè, riuscirei a vivere l’attesa della stagione finale di Stranger Things come se fossi ancora adolescente. Con lo stesso sentimento di Oskar Schell, il protagonista del romanzo Molto forte, incredibilmente vicino, uscito esattamente vent’anni fa, quando in uno dei suoi tanti giri per New York dice: «Che bello, una cosa piacevole da aspettare».
Ma nonostante tutto, nonostante il bombardamento di immagini, di spot, di reel sponsorizzati, in questi anni, dal 2016, direi, cioè da quando è uscita la prima stagione, in molti ci siamo chiesti: Quando uscirà la seconda? E la terza? E la quarta? E il finale? Quanti mesi mancano al 27 novembre? Ma quindi l’ultima stagione uscirà in tre parti? Ma sarà vero che ogni episodio ha la stessa durata di un film? Mi stai dicendo che finalmente so cosa farò a Capodanno? Finalmente ci siamo, tra poco potremo vedere gli ultimi otto episodi di una serie che è diventata un cult già dalla prima stagione, dal primo episodio, e che in effetti, a pensarci bene, giustifica anche questa sorta di follia collettiva che porta i fan a voler acquistare lego, funko pop, tazzine, vestiti di ogni tipo, solo perché sopra c’è scritto STRANGER THINGS, con quel font ormai riconoscibile anche da chi non ha mai visto la serie, o perché compaiono i personaggi, che siano i buoni, Will, Mike, Dustin, Lucas, Eleven, Max, Steve, Nancy, Jonathan, Joyce, Hopper, Robin, Eddie, Erica, Suzie, o i cattivi, il Demogorgone o il terribile Vecna. Un cult nostalgico che rimanda ai classici.
Un classico, sin dall’inizio
Ma come si spiega questo enorme successo? Quali sono le ragioni per cui possiamo considerare questa serie un cult? Partiamo dalla storia, ideata dai fratelli Matt e Ross Duffer. Un gruppo di bambini che vive nella cittadina americana di Hawkins (Indiana), all’inizio degli anni Ottanta, scopre che Dungeons & Dragons non è solamente un gioco di ruolo, ma un indizio della realtà. Uno di loro, Will, viene rapito e portato nell’Upside Down (in Italia, il Sottosopra), un mondo parallelo e speculare al nostro, abitato da mostri come il Demogorgone, il Mind Flayer e Vecna. I due mondi si contaminano (e si contagiano) in ogni stagione, ed è proprio in questo continuo passaggio che si intrecciano i fili narrativi della storia. Una struttura classica, in cui i buoni, in gran parte bambini e adolescenti, rimangono buoni, e i cattivi, mostri o esseri umani adulti che in fondo vorrebbero essere mostri anche loro, rimangono cattivi. Una struttura credibile, riconoscibile fin dal primo episodio, sì, ma soprattutto familiare, in cui è possibile ritrovare alcune scene iconiche che hanno fatto la storia del cinema.
Ci sono i bambini che si muovono in bici, che scappano dai cattivi, che lottano contro il governo americano, come in E.T., e il richiamo si fa ancora più esplicito quando Eleven indossa una parrucca bionda per non farsi riconoscere, proprio come il piccolo alieno amico di Elliot. E in generale, la dinamica del gruppo che dà una nuova forma, un nuovo colore all’infanzia, rimanda a classici come I Goonies, Stand by Me, It, anche attraverso la lotta contro il male e la scoperta, forse prematura e brutale, della morte. E come in It, come se fosse un po’ l’effetto Linklater di Boyhood, i bambini crescono, portandosi addosso gli stessi traumi, e li ritroveremo, il 27 novembre (negli episodi 1, 2, 3, 4), il 26 dicembre (negli episodi 5, 6, 7) e il 1° gennaio (nell’episodio finale della quinta e ultima stagione), dalle 2 di notte, quasi adulti.
Parole, musica e oggetti dei fratelli Duffer
Una ripresa dei classici, questa, dettata anche dalla musica, dai Joy Division ai Clash, dai Dead or Alive ai Metallica, da Madonna a Kate Bush, con la sua “Running Up That Hill” tornata in cima alle classifiche nel 2022, dopo l’uscita della quarta stagione. Per non parlare, poi, della cura dei dettagli, del ritorno di oggetti come il walkie-talkie, il telefono a disco, la macchina da scrivere, la polaroid, le luci natalizie, il marsupio, le vhs, le musicassette, i giochi arcade, la torcia, e ovviamente Dungeons & Dragons. I fratelli Duffer, più che l’angoscia dell’influenza di cui parlava Harold Bloom, sembrano seguire l’estasi dell’influenza di cui parlava Jonathan Lethem. Se è vero, come dicono, che è già stato detto tutto, o quasi, è possibile rifarsi a un immaginario già vissuto, già consumato, e restituirgli una nuova vita. In Stranger Things non c’è un’esaltazione passiva di un’atmosfera, di un’epoca, ma ogni elemento è funzionale al racconto dei personaggi e allo sviluppo della storia. Le luci natalizie servono a Joyce per comunicare con Will che si trova da qualche parte nell’Upside Down, il walkie-talkie serve a comunicare ai bambini quando sono in casa o quando finiscono in una base sotterranea russa, i giochi arcade sono l’espediente narrativo per conoscersi, e Dungeons & Dragons, che all’inizio potrebbe sembrare una forma di fuga, un rifugio dalla realtà, diventa, una stagione dopo l’altra, uno strumento ideale e necessario per provare a decifrarla.
Gli anni Duemila e gli anni Ottanta
E anche se per molti potrebbe sembrare un azzardo, Stranger Things, negli anni venti del Duemila, ha avuto lo stesso peso che ebbe Twin Peaks negli anni Novanta. Non solo per la piccola città che diventa un luogo emotivo o per il racconto di un trauma collettivo, ma anche perché ha riportato in voga l’estetica degli anni Ottanta. Sono tornati il vestiario, i giochi arcade, le polaroid e tutte quelle macchine che sembravano ormai rimpiazzate dai teleobiettivi della Apple, la musica e anche gli strumenti per ascoltarla. E superando la retorica dei video contro il bullismo che si vedono a scuola, ha avuto il coraggio di rendere eroi personaggi come Dustin o Eddie Munson, di farci venire voglia di essere come loro, senza provare mai pietà per loro, e di far crescere un personaggio come Steve Harrington, per me il migliore della serie, che da aspirante bulletto stereotipato diventa un babysitter con il cuore quasi sempre a pezzi, capace di mostrare a tutti quanto possa essere bello, ogni tanto, essere sé stessi. Senza Stranger Things, non ci sarebbero serie tv come Extraordinary, Paper Girls, I’m Not Okay with This, film come Summer of 84, il nuovo It e il recentissimo Weapons, forse il film dell’anno, che si fonda sullo stesso nucleo narrativo della serie dei Duffer, e che in qualche modo è uno specchio fedele della nostra società, gli adulti che diventano parassiti dei bambini e che gli rubano il futuro, pur di poter sopravvivere, ancora per un po’.
E quindi eccoci qui, ci siamo, a ingannare l’attesa montando lego e aprendo ovetti Kinder, anche se vorremmo tutti che questa attesa, che questa avventura non finisse mai. Sono proprio questi i momenti che rimarranno, in fondo. Noi che aspettiamo fine novembre, fine dicembre, l’inizio di un nuovo anno, per vedere una serie che, in un modo o nell’altro, ci ha cambiato la vita, a dieci anni da quando abbiamo cominciato a guardarla.
Ci ha messo 20 anni a realizzare il film dei suoi sogni, che adesso è in cima al botteghino italiano, americano e mondiale. Lo abbiamo incontrato e ci ha raccontato della sua passione per il teatro, del ristorante dei suoi genitori e di quella volta che incontrò Spielberg.
