Stili di vita | Design

Milano e il Salone

Torna la manifestazione che da sempre attrae teste e matite dal mondo. I personaggi che hanno fatto la storia e gli oggetti entrati nel culto.

di Michele Masneri

Ci risiamo, torna il Salone del Mobile, anzi il Salone, e per la cinquantacinquesima edizione tutti nuovamente a Milano, regno del design, da un secolo ecosistema di compassi d’oro e d’argento. Con ragioni anche etnografiche precise. Una Silicon Valley della poltrona e della lampada e della posata, una posizione magari climaticamente sfortunata e però al centro di tanta industria strategica: fabbrichette di mobili in Brianza; di tessuti su, verso Como; maniglie e pentolame verso il Piemonte, da Omegna a Novara.

Al centro, Milano, da sempre le migliori teste e matite, locali e di importazione, con animal spirits poetici ma anche disintermediatori. Intorno, manovalanze illuminate. I Cassina che scoprono negli anni Trenta Giò Ponti facendo gli arredi per il piroscafo Andrea Doria, e poi producono la sedia Superleggera, buttandola da una finestra per provarne la rigidità. E poi riscoprono i classici, da McIntosh a Le Corbusier, grazie anche a Filippo Alison, scozzese-napoletano scomparso l’anno scorso che, come i monument men, ha salvato comprando brevetto per brevetto la collezione I Maestri, autobiografia del design che quasi tutti abbiamo o vorremmo in casa.

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Nel 1968, dove altrove si spara per sottolineare cambiamenti di canoni, dal mobiliere Zanotta si presentano tre sconosciuti progettisti torinesi (Piero Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro) col progetto della poltrona Sacco, un sacco appunto pieno di palline di plastica, che passa direttamente in Fantozzi. I fratelli Castiglioni avevano già mangiato la foglia e nel 1960 fanno la poltrona San Luca: una poltrona moderna ma che sembra antica, «sembra liberty, freghiamo la signora che compra un pezzo nuovo pensando che sia antico», dice Pier Giacomo.

Mentre il fratello Achille si butta soprattutto sui bresciani della Flos informando con un ready made meneghino l’immaginario illuminotecnico mondiale (dalla Luminator, fatta in fretta e furia nel 1955 per vincere il Compasso d’Oro, alla Arco, un blocco di marmo con un buco per infilarci un manico di scopa e trasportarla). Intanto è il boom e, insieme all’autostrada e alla Lambretta, cambia anche la casa: sparisce il tinello coi mobili in stile, sparisce il lungo corridoio angusto che divide le zone segrete dalla “rappresentanza”. La casa cambia finalmente ci sono i soldi per comprarsi mobili non punitivi. Microborghesie e tycoon paesani, ma molto attenti al cambiamento non si spaventano di invenzioni bestiali: Busnelli inventa B&B Italia e i divanoni di poliuretano sostituiscono il divano in stile del salotto buono.

Design totale: Achille Castiglioni disegna le case, gli arredi e le fabbriche in cui vengono prodotti gli stessi arredi dei suoi committenti (gli stabilimenti per Dino Gavina); nel ’61, in uno dei palazzi per uffici di Corso Europa di Portaluppi, disegna la birreria Splugen Brau con impianti e condizionamento e fili elettrici a vista, un piccolo Beaubourg lombardo, con lampade e posacenere poi iconici. «Abbiamo fatto una birreria; doveva essere un ambiente molto milanese, i milanesi sono bauscia, gli piace farsi vedere. Li abbiamo messi un po’ in vetrina». E grafica e menu e immagine coordinata, si direbbe oggi, di Max Huber, già inventore dei marchi Rinascente e Borsalino e delle copertine dei Coralli Einaudi e dell’Esselunga.

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La città del design straripa infatti di stranieri accorsi a Milano per diffondere il verbo del buon disegno industriale e grafico: non solo lo svizzero Max Huber, l’austriaco Ettore Sottsass, il bavarese Richard Sapper, l’olandese Bob Noorda (guru delle metropolitane e molto altro), in un ecosistema di fabbrichette e calvinismo, in una città che doveva essere peraltro molto allegra, non ce l’hanno mai raccontata giusta, tra quei «si andava a letto presto la sera» (anche in tempi più recenti Sapper rifiutò gli inviti di Steve Jobs per dire forse inopinatamente: «Che ci vengo a fare in California, con tutto quello che ho da fare qui a Milano?»).

Un mondo di eccentrici, eclettici, non specialisti, in una città con lo stand nel sangue (il primo Expo, quello del 1906, poi diventa Fiera, e dal 1961 lì il Salone). Enzo Mari, Bruno Munari. Spiritosi, milanesemente. Nel 1957 Achille Castiglioni, sempre lui, disegna il cinema privato per Angelo Rizzoli; nella casa «abbiamo realizzato un colonnato in stile corinzio, era un modo per prendere in giro un certo tipo di motivazioni della committenza». «Rizzoli non capiva i disegni, ma gli piacque e ci mise le poltrone rosse». La nuora invece capì lo scherzo, si seccò, e per la tavernetta si rivolse ad altro architetto. Castiglioni fa tutte le parti in commedia, si permette pure di sfottere il boom dall’interno, criticandone il kitsch come un Arbasino del interior decoration (del resto l’Anonimo Lombardo è dello stesso anno).

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Intanto però la mattina ci si alza presto: a Crusinallo di Omegna i fratelli Alessi, tornitori dal 1970, si inventano le caffettiere d’autore, in tempi pre-Nespresso, legittimando un Bilderberg dei designer, che nel frattempo fiorisce ovunque ma viene a produrre a Milano: Philippe Starck disegna le stanze di Mitterrand all’Eliseo ma poi viene a produrre qui per Driade, Alessi, appunto, e Kartell, spremiagrumi inquietanti e sedioline sberluccicanti. Alla fine degli anni Settanta il Salone ha rotto gli argini, arriva in centro, milanesità in purezza su marciapiedi e in show room, con un flusso migratorio che prima del 1983 non osava pronunciare il suo nome (ma poi ci pensa Abitare: si chiamerà Fuorisalone). All’ombra del bosco e del sottobosco verticale, Milano si prepara ancora una volta a offrire il miglior design e prosecco diffuso.

 

Immagini (courtesy Salone del Mobile Milano).