Si intitola La terra del dolce domani e in Italia l'ha pubblicata Feltrinelli.
Perché mandiamo le cartoline? Questo oggetto di carta rettangolare acquistabile per pochi spiccioli che riproduce paesaggi, hotel e opere d’arte nell’epoca della loro riproducibilità turistica? Ce lo chiediamo guardando il documentario Stile Alberto (diretto da Michele Masneri e Antongiulio Panizzi, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in arrivo su Rai 3 il 15 novembre – dentro c’è pure lo zampino di Piero Maranghi e Luca Guadagnino). Ce lo chiediamo perché Arbasino di cartoline ne mandava tantissime ad amici e conoscenti, quasi sempre con una breve riga di saluto sopra la firma. Questi quadrilateri di cartoncino con sopra un duomo o un Poussin o una cascata sudamericana sono qualcosa di lui che è rimasto, dopo la sua morte avvenuta cinque anni fa, un qualcosa sparso tra scatole da scarpe, mensole o infilati in mezzo ai libri in decine e decine di case, tra l’Appia antica e Brera.
«Arbasino scriveva sui giornali quando i giornali erano ancora importanti», dice Masneri nel film, raccontando della sua «vera e propria ossessione» per questo reinassance man. Ossessione trasformatasi quasi in stalking, e poi in amicizia, mentre mostra allo spettatore spezzoni di ospitate da Fabio Fazio (quando ancora Fabio Fazio ospitava scrittori che non fossero Dan Brown), riprese segrete col cellulare e le copertine delle varie pubblicazioni di Arbasino dalla sua personale biblioteca piena di edizioni feticcio e di tascabili consumati.
E poi ci fa incontrare amici e adepti di “Alberto”, sia della sua vita mondana che di quella editoriale, da Giovanni Agosti nel suo buio antro-archivio alla contessa venezuelana Marisela Federici con i suoi pranzi pieni di prelati. C’è un motivo per cui possiamo presupporre che Masneri, diventato anche lui come il suo mito autore Adelphi, e anche lui in grado di saltare dalla narrativa – Paradiso – al reportage – Steve Jobs non abita più qui, sia in grado di capire e raccontare Arbasino. Entrambi hanno fatto studi per avviarsi a una eventuale carriera diplomatica, e soprattutto entrambi sono provinciali. «Tu del tuo Paese apprezzi soltanto la stazione per potertene andare», fa dire ai genitori di un personaggio del suo esordio, Le piccole vacanze, Arbasino.
Tra le varie porte tematiche che apre il documentario c’è quella della fuga dalla provincia italiana. Nato nella nebbiosa Voghera nel 1930 nel segno dell’acquario, Arbasino viaggerà tutta la vita, esplorerà sempre lidi lontani, come per togliersi di dosso l’umidità padana. E qui forse possiamo in parte rispondere al perché delle cartoline. La cartolina diventa saluto, certo, gesto di affetto tangibile, ma anche segno delle proprie peregrinazioni, delle proprie curiosità, delle proprie fissazioni, degli spostamenti in giro per il mondo per conoscere, come diceva Marguerite Yourcenar, «la propria prigione». La piccola borghesia del pavese sta stretta all’uomo che di lì a pochi anni si prenderà una Mg rossa decapottabile per viaggiare per la penisola, come i suoi personaggi di Fratelli d’Italia, libro mobile (di cui vediamo nel documentario varie edizioni).
E si intravede così, anche dai racconti dei lombardissimi parenti di “Alberto”, cioè Nino, con cui parla Masneri, la tenerezza amara del desiderio di fuga, di conoscenza, come le visite all’amico nobile per godere del suo precettore. Non revanscismo sociale, anzi, ma allargamento spaziale, sete di novità e di mutevolezza. Arbasino, con le sue cartoline e i suoi reportage asiatici e americani e le sue visite alle mostre e le “gite a Chiasso” e le sue interviste a Simenon al Festival di Cannes dal barbiere, diventa un coltissimo Rastignac balzacchiano che sta in piedi sulle colline non di Parigi ma del mondo. “Il male di vivere lo incontravo a Voghera, ma non lo salutavo”, scriveva.
Ma, ovviamente, vista la multidimensionalità arbasiniana, c’è molto altro nel film Stile Alberto (che il 20 ottobre verrà presentato anche al cinema Giulio Cesare a Roma e poi su Rai 3 il 28). E vale come amore per la lettura e manifesto della potenza della scrittura anche solo vedere la scena in cui Giorgio Montefoschi si sbellica con le lacrime agli occhi mentre legge a voce alta. Ma appunto, c’è dell’altro. In una conversazione sul Foglio con Anna Katharina Fröhlich, madre dei figli di Roberto Calasso, le si chiedeva come mai avesse scritto il libro La trama dell’invisibile, dove parla della sua storia d’amore e intellettuale con il saggista e boss di Adelphi. Lei diceva che uno dei motivi, forse il principale, era contribuire a non far dimenticare la sua figura e la sua opera. Diamo per scontato che chi è celebre nell’epoca in cui viviamo, cioè persone la cui esistenza terrena coincide in parte con la nostra, note e citate resteranno a lungo. Ma è sufficiente vedere vecchie liste di premiati Strega, o scoprire influentissimi autori e intellettuali che poi, dopo una o due generazioni, hanno smesso di essere tali per i posteri, per renderci conto che la fama e la lettura perpetua di un Arbasino non possano finire a breve.
Arbasino è morto da poco, e diamo per scontato che, per noi che lo amiamo, sarà sempre Arbasino, e basterà il suo nome tirato fuori a una cena per scatenare un elogio sulla litigata a Match tra Nanni Moretti e Mario Monicelli (uno dei migliori pezzi di tv italiana), ma non sarà sempre così. Vedere Stile Alberto, oltre a mostrarci l’uomo Arbasino con i suoi amori e le sue scorribande emotive e lo scrittore-deputato-giornalista-viaggiatore Arbasino, fa onore anche questa operazione, la pellicola diventa documento e strumento di memoria, diventa quella cosa da far guardare a figli e nipoti quando i libri non esisteranno più e tutti useremo Glovo e l’AI e gli occhiali di Zuckerberg e queste nuove generazioni ci chiederanno “nonno nonno, ma cos’era una cartolina?”.

Abbiamo incontrato la scrittrice per parlare di Terrestre, raccolta di racconti che ha definito come «il lato b di L’invincibile estate di Liliana», il libro con cui ha vinto il Pulitzer.