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Non tutti sanno che le statue classiche erano coloratissime

«Siamo abituati a vedere le sculture classiche – per via dei musei, dei calchi in gesso e del modo in cui ci sono arrivate le statue – spogliate di ogni colore» dice Renée Dreyfus, curatore presso il Fine Arts Museum di San Francisco, dove ha organizzato la recente esposizione Gods in Color: Polychromy in the Ancient World (di cui c’è anche un libro omonimo). Protagoniste sono le vivaci ricostruzioni a colori di come dovevano apparire le statue greche del V secolo avanti Cristo ai loro contemporanei. Le prime scoperte di tracce di colore sull’arte classica, spiega Dreyfus, devono essere pervenute nel 1748 durante i primi scavi di Pompei, dove la cenere aveva aiutato a preservare nel tempo i residui di pittura. I ritrovamenti continuarono nel 1805 quando segni di pigmento sbiadito furono reperiti sui templi del Partenone e dell’Eretteo. Le testimonianze pervenute ci raccontano rappresentazioni estetiche inconciliabili con l’idea che oggi abbiamo di bellezza classica.

Da dove viene allora la venerazione per il pallore delle statue greche? Il concetto può essere ricondotto alla dottrina dello storico d’arte Johann Joachim Winckelmann, che a partire dal 1700 svalutò l’importanza del colore a vantaggio della forma classica. Dai suoi scritti apprendiamo che «il bianco è il colore che riflette più raggi di luce, e dunque il più facilmente percepibile», ad indicare il candore come ideale di bellezza. Questo canone ha attraversato tre secoli ed è giunto fino a noi, nonostante le moderne tecnologie del ventesimo secolo abbiano permesso analisi avanzate sulla policromia della statue. Oggi, grazie alle ricostruzioni di Dreyfus, possiamo riuscire a vedere i finimenti blu acceso, rossi e gialli della Kore di Chios, nonché gli occhi di pietre variopinte e i denti d’argento dei Bronzi di Riace.