Alla vigilia dell'arrivo su Netflix dell'ultima stagione della serie, un ripasso di tutti i motivi per cui è giustamente diventata un cult.
Qualche sera fa è venuta fuori in pubblico una mia lacuna, ed è stato molto imbarazzante. Mi sono trovata costretta ad ammettere di non aver mai visto nessuno dei film principali della Fimografia Lesbica Ufficiale. La mia ignoranza ha a tal punto sbigottito e indignato che alcune amiche hanno deciso di farsi carico della mia alfabetizzazione. La prima proposta che hanno selezionato è stata una pietra miliare del genere, una visione imprescindibile che ha effettivamente risposto a molte domande che non mi ero mai posta, cioè L’altra metà dell’amore (anche se preferisco il titolo originale, in quanto meno didascalico e più deliziosamente carico di lesbica drammaticità: Lost and Delirious).
È un film capostipite perché è una visione di solito adolescenziale, formativa, e anche perché traccia il destino cinematografico tipico di tutte le lesbiche a venire: sofferenza, morte, distruzione, debiti, abbandono, sciatica. Racconta la storia d’amore nata in collegio fra l’orfana eterosessuale curiosa Mary e l’ innamoratissima Paulie, lesbica problematica e maschiaccio che si contende l’amata con i pregiudizi altrui e col fidanzato di lei. Inutile dire che è Paulie infine ad avere la peggio, pubblicamente e crudelmente rinnegata da Mary, vittima delle pressioni della sua famiglia e della società. L’umiliazione e il dolore sono tali che Paulie finisce sul tetto del collegio in piena ideazione suicida lesbica da fine di una relazione (lost and delirious!), pronta a buttarsi con in braccio la poiana ferita di cui si è presa cura durante l’intero film.
Quella poiana è diventata un animale mitologico. Una sintesi immediatamente comprensibile a tutta la comunità, riassuntiva del 90 per cento della rappresentazione omosessuale femminile sugli schermi. Per anni, infatti, la grande maggioranza delle lesbiche disponibili sullo schermo ha avuto sempre più o meno la stessa storia, la stessa personalità, lo stesso arco, la stessa ineluttabile fine da poiana. Tradizionalmente la Lesbica dei Film non ha mai ricevuto una buona notizia: mai una promozione sul lavoro, una nascita in famiglia, un compleanno fra amici, qualcosa. È invece spesso rimasta impigliata in pellicole indie oscure e tragedie relazionali di ogni sorta, devastanti per la sua già precaria salute mentale. Infatti di solito, insieme alla preferenza per le donne, arrivava anche un carattere preconfezionato di donna vagamente ossessiva, estrema, problematica, priva di una qualsiasi forma di ironia. È stato così per secoli e secoli.
In questi ultimissimi anni stiamo assistendo a una sorta di riscoperta di questo tipo di personaggio. Per esempio è una lesbica la brillante protagonista di Pluribus, forse la serie più ambiziosa degli ultimi anni. È una lesbica realizzata e di successo la protagonista di The Beast in Me, da poco su Netflix. Il chiacchericcio collettivo attorno ai temi di sessualità e identità sembrerebbe aver generato dunque nuove possibili declinazioni, eppure non è proprio così.
C’è una prima questione di fondo molto evidente e scivolosa, cioè la volontà di rendere queste protagoniste delle eroine moderne: indipendenti, forti, disincantate, ironiche. È un intento apprezzabile, ma è difficile non notare l’automatismo di abbinare a questo genere di caratteristiche tradizionalmente mascoline l’omosessualità, finendo di nuovo per colorarla con una specifica indole, facendone “un tipo”. Incidentalmente poi c’è anche la questione che sembra che il pensiero sotteso sia: non è possibile per una donna amare contemporaneamente il pene e l’avere una propria personalità. Ecco, non so.
In ogni caso la lesbica televisiva di oggi non è così diversa dalla sua giovane antenata che si buttava dai palazzi per le etero. Si è solo trasformata in sua madre, un’evoluzione non esattamente immaginifica. Dalle numerose similitudini dei nuovi racconti televisivi possiamo desumere con una certa precisione com’è la Lesbica che Piace di questi anni. Per prima cosa è di mezz’età, presumibilmente per aiutare un certo tipo di pubblico maschile ad allontanare l’associazione istintiva con YouPorn e spostare l’asticella dell’empatia e dell’identificazione verso la categoria “essere umano”. E’ naturalmente piagata dalla tragedia e dall’ingrugnimento come sempre: è alcolizzata, ha perso un figlio, è divorziata, è stata licenziata. Di solito non si trucca ed è (legittimamente) sospettata di follia da chiunque abbia intorno. Ha novecento anni e non ha mai sentito parlare di regolazione emotiva… È vissuta come una vecchia giacca di cuoio: beve whisky, aggiusta la caldaia, non ride alle tue battute. Naturalmente, fa la scrittrice.
Questa non è di per sé una sorpresa, essendo che le possibilità di carriera legalmente consentite alle lesbiche sono molto poche, come tutti sanno, coprono esclusivamente il segmento che va da scrittrice-fotografa-poetessa per le cittadine a accumulatrice di cani-inquietante guardiano della cascina per le bucoliche. Ci sono prodotti ormai vecchi e ridicoli, come The L World – lo dico con l’affetto e la tenerezza con cui commenterei un mio outfit delle medie – che con tutti i loro macroscopici difetti offrono un caleidoscopio umano meno stlizzato di alcune narrazioni contemporanee: raccontano lesbiche che sono sì lesbiche e piene di drammi, ma a volte sono anche superficiali, festaiole, arricchite, divertenti, pettegole, ben vestite, sofisticate. Individui più che cluster sociali.
Esistono anche racconti di femminilità diverse che hanno davvero degli elementi di novità. A volte ne parlano tutti, come nel caso di Hacks, a volte non ne parla nessuno ed è un peccato, come nel caso di Somebody Somewhere. È anche poco sensata l’idea di tracciare paragoni fra show diversissimi solo per le comunanze delle protagoniste. Pluribus è sostenuto da una scrittura esplosiva, un impianto narrativo sorprendente e complesso a cui la protagonista deve solo fare da cassa di risonanza. La sua riconoscibilità e la sua semplicità sono un punto di forza. In altre serie come The Beast in Me lo sforzo attoriale, per dare rotondità al personaggio, si deve fare più evidente.
La questione alla base rimane sempre un po’ la stessa e non riguarda solo la rappresentazione delle donne omosessuali, piuttosto l’uso degli stereotipi nella costruzione di personaggi che siano coinvolgenti e vivi agli occhi di chi li guarda. È un equilibrio difficile, anche perché chi scrive per lo schermo, in particolar modo per la serialità televisiva, punta sempre in qualche modo all’universalità. Alla resa di una esperienza riconoscibile e condivisa.
Si potrebbe obiettare infatti che alla base degli stereotipi ci sono gli archetipi, ci sono le verità ineludibili, come per esempio il fatto che questo articolo è redatto da una donna lesbica quarantenne che scrive per lavoro e molto raramente ride alle tue battute. Ma la banalità non ha mai ragione. Al cuore del tentativo di rappresentare un essere umano sullo schermo dovrebbe esserci una ricerca di autenticità e di unicità, non un’omologazione arresa a quelli che sembrano dei tratti significanti di un certo tipo di persone, perché quelle sono coincidenze volatili. Insomma un grande numero di parole per dire: l’abito non fa la lesbica.
Ci ha messo 20 anni a realizzare il film dei suoi sogni, che adesso è in cima al botteghino italiano, americano e mondiale. Lo abbiamo incontrato e ci ha raccontato della sua passione per il teatro, del ristorante dei suoi genitori e di quella volta che incontrò Spielberg.
