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Raccontare il gusto italiano a Pitti Uomo

Mentre la 104esima edizione della fiera dedicata alla moda maschile segna un incremento delle presenze di buyer italiani e internazionali, fuori dalla Fortezza sfilano Fendi e il californiano ERL.

di Silvia Schirinzi

Dopo un’edizione invernale già in ripresa, Pitti Uomo è tornato dal 13 al 16 giugno a Firenze in una Fortezza da Basso che, stando a quanto annunciato dal sindaco Dario Nardella, si prepara a un restyling. In attesa dei lavori di costruzione del nuovo padiglione Bellavista (investimento iniziale: 26 milioni di euro, come riporta Il Sole 24 ore) che inizieranno il prossimo 15 luglio e di certo saranno una bella sfida per la prossima edizione della fiera, la Fortezza è tornata a riempirsi di buyer. I dati di affluenza dei primi due giorni e mezzo hanno infatti visto i compratori italiani in aumento del 5 per cento e quelli esteri di oltre il 20 per cento rispetto al giugno 2022, mentre il nuovo presidente di Pitti Antonio Dematteis ha parlato di «stagione da affrontare con coraggio». La formula mista (fiera + eventi dislocati per tutta la città) che ha reso Pitti uno degli eventi chiave del calendario della moda maschile ha molto sofferto durante la pandemia, ma nelle ultime due edizioni sembra essere tornata a essere il collettore di esperienze molteplici che tutti conosciamo. Il calendario degli appuntamenti è come sempre fitto, a cominciare dai grandi eventi come lo show organizzato da LuisaViaRoma in collaborazione con British Vogue a Piazzale Michelangelo (martoriato però da un diluvio estivo), la sfilata di Fendi negli spazi della sua Factory, il polo produttivo di Capannuccia in mezzo alla campagna toscana, e quella del designer californiano Eli Russell Linnetz (ERL), vincitore dell’Lvmh Prize nel 2022, nel cortile interno di Palazzo Corsini.

Seppur lontanissime fra loro, le due sfilate principali qualcosa in comune in realtà ce l’avevano, e cioè che erano due modi di celebrare la collettività nella moda, a cominciare da quella dell’atelier-fabbrica di Silvia Venturini Fendi, che è uscita per il saluto finale con tutto il suo team creativo. La collezione era un’esplorazione di una mascolinità leziosa e fluida che rimandava (nei grembiuli con le tasche portati sopra i pantaloni, ad esempio) al luogo in cui si svolgeva, lo stesso dove quotidianamente nascono i prodotti del marchio, quasi una sorta di performance in cui i modelli si muovevano tra i tavoli di lavoro dove gli operai-maestri artigiani passano le loro giornate. Era allo stesso tempo un promemoria e un tentativo di riaffermare cos’è il lusso italiano, come nasce e chi lo fa. Un’operazione che sempre più marchi stanno perseguendo, cercando di staccarsi dallo storytelling imbevuto di retorica che negli ultimi vent’anni ha svalutato il made in Italy e più generale il senso del “buon gusto” europeo. “Luxury goods: Europe’s joke on the world” ha scritto qualche giorno fa Janan Ganesh sul Financial Times in un provocatorio editoriale, che però pone degli interrogativi interessanti su cosa significhi oggi lusso a partire dai prodotti di punta dei grandi marchi, quelli più riconoscibili e solitamente pieni di loghi: «Non sono certo un arbitro del gusto, quindi è con una certa esitazione che avanzo la seguente argomentazione. Questa è robaccia, no? È un’idea piuttosto naïf di glamour. Come pagare per la spunta blu su Twitter, indossare questo tipo di cose comunica l’opposto di quello che dovrebbe significare aver raggiunto uno status: comunica bisogno, impressionabilità», die Ganesh.

È una provocazione, appunto, e per certi versi anche un po’ ingenua, ma è una riflessione legittima: in un momento in cui il punto di vista europeo, e quindi italiano, non è più –fortunatamente– né l’unico né il più ricercato, come si mantiene la credibilità delle nostre industrie creative? Come le si racconta, senza cadere negli stereotipi che oggi ci si ritorcono contro? Se su TikTok siete mai incappati nei video di @tanner.letherstein, creator che letteralmente distrugge le borse di lusso per spiegare ai suoi follower il processo di lavorazione e i costi vivi – reali – avrete una qualche idea di come oggi il racconto di ciò che è lusso, almeno sui social, sia molto più difficile da controllare. Ecco perché Fendi apre le porte della sua fabbrica: per mostrare – anche a tutti quelli che seguono lo streaming e commentano in diretta, in attesa della popstar Juyeon dei The Boyz – i suoi luoghi, le sue persone, la sua famiglia, come ha detto Venturini Fendi ai giornalisti.

Ha scelto invece di portarsi tutti i suoi giovanissimi surfisti da Venice Beach Eli Russell Linnetz, che ha immaginato di atterrare a Pitti il 15 giugno del 2176 con una delegazione di ambasciatori post apocalittici per la sua prima sfilata dal vivo (lo scorso anno aveva però collaborato con Dior Men per la collezione Resort 2023). Il designer trentenne, anche lui “scoperto” a suo modo dall’immancabile Kanye West, ha una sua community di riferimento e con il suo marchio ERL sembra essere uno delle poche, genuine, voci dello streetwear: la sfilata non è probabilmente il suo mezzo espressivo d’elezione, ma se non altro ha saputo creare un momento di freschezza con una – voglio pensare – buona dose di ironia.

Intanto in questi giorni di cose interessanti ne sono successe, dallo show del Polimoda, dove hanno sfilato le collezioni dei migliori allievi di Fashion Design, fino all’inaugurazione di Gucci Visions al Gucci Garden, anch’essa una celebrazione del marchio in attesa del debutto di Sabato De Sarno a settembre. Ha infine riaperto il Museo della Moda e del Costume di Palazzo Pitti, con una mostra intitolata Germana Marucelli (1905-1983). Una visionaria alle origini del Made in Italy, che fino al 24 settembre si propone di raccontare una delle figure fondamentali del made in Italy, definita «sarta intellettuale» da Fernanda Pivano e «interprete rara di poesia» da Giuseppe Ungaretti. Organizzata dalle Gallerie degli Uffizi in collaborazione con l’Associazione Germana Marucelli e curata da Silvia Casagrande e Vanessa Gavioli, la retrospettiva annovera circa centocinquanta abiti che ricostruiscono un percorso a ritroso, dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, in conversazione con le opere d’arte e i gioielli di artisti italiani con i quali Marucelli ha collaborato, come Paolo Scheggi, Pietro Gentili e Getulio Alviani. In mostra vengono perciò ricreati gli ambienti sia del salotto culturale della stilista, fulcro della sua attività negli anni Quaranta e Cinquanta (e frequentato da poeti, artisti e intellettuali come Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo, Gillo Dorfles, Lucio Fontana, Massimo Campigli, Francesco Messina, Bruno Munari, Ettore Sottsass, Giò Ponti, e il filosofo Dino Formaggio) sia dell’atelier progettato per lei da Paolo Scheggi nel 1964, così da consentire al visitatore di entrare direttamente nel luogo e nel momento storico in cui si faceva la moda italiana. Una lezione che ci è, evidentemente, utile ancora oggi.