Secondo Percival Everett arte e politica sono la stessa cosa

A Milano per la prima mostra dedicata ai suoi quadri, lo scrittore ci ha parlato di James, il romanzo con il quale ha vinto il Pulitzer, della prosa di Mark Twain e del perché Wittgenstein è uno stronzo.

17 Giugno 2025

Percival Everett è un uomo paziente. Lo so con certezza perché l’intervista che state per leggere me l’ha concessa nonostante un viaggio infernale dagli Stati Uniti all’Italia. «Dovevo partire da Atlanta, ma a causa del maltempo il mio volo ha accumulato tre ore di ritardo. Sono arrivato a New York e ovviamente l’aereo che avrei dovuto prendere per Milano era partito da un pezzo». Avrebbe dovuto essere a Milano, ospite della Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi, la mattina di mercoledì 11 giugno, è arrivato 48 ore dopo. Appena sceso dall’aereo è salito in macchina e ha raggiunto la Galleria Carlocinque (dove per la prima volta vengono esposti i suoi quadri, nella mostra Logica predicativa) perché aveva un’intervista da fare, l’impegno era preso e ha insistito per non rimandarlo al giorno successivo. Ha avuto anche la pazienza di stare ad ascoltarmi mentre gli descrivevo Rivista Studio. «Parliamo di tutto ciò che c’è di interessante», gli ho detto. «E allora perché sei qui a intervistare me», mi ha risposto lui.

James (pubblicato in Italia dalla Nave di Teseo) è stato uno dei libri più discussi del 2024, dopo la vittoria del Pulitzer per la narrativa, se possibile, se ne è parlato ancora di più di prima. A che punto uno scrittore non ne può più di parlare del suo romanzo?
Beh… Io non ne posso proprio più. Non fraintendermi, sono contento che questo libro faccia parte di questo mondo, che le persone ne parlino. Però sono stanco di parlarne io, ecco. Anche perché ne parlo sempre con i giornalisti e parlare con i giornalisti è strano. Per qualche motivo, i giornalisti sono convinti che a me non piaccia parlare con loro, sai?

E come mai ne sono convinti?
Forse perché sono il tipo di persona che nelle interviste tendenzialmente risponde alle domande con un sì o con un no.

Questa sarà una di quelle interviste?
E che ne so io, dipende da te. Basta non fare le domande sbagliate.

Ottimo. Che rapporto ha con i premi? Del Pulitzer abbiamo detto, ma James ha vinto anche il National Book Award ed è stato uno dei cinque finalisti dell’International Booker Prize. Ci tiene, ai premi?
No, perché sono stronzate. Voglio dire, fa piacere essere candidati, fa piacere vincere, farebbe piacere ricevere un premio alla settimana, figurati. Ma non è che il mondo diventi un posto migliore se io vinco un premio in più. Non è una cosa alla quale penso mentre scrivo, non ci ho mai pensato, neanche all’inizio della mia carriera. Non ho mai costruito neanche un vero e proprio rapporto con la fama, a essere onesto. In questo mi ha aiutato anche il fatto di non aver mai letto nessuna recensione di nessuno dei miei libri. E, più recentemente, mi ha aiutato anche il fatto di non aver mai messo piede sui social.

Non usa i social? Perché?
Perché è un brutto quartiere e io ho imparato da piccolo che nei brutti quartieri le persone intelligenti non ci mettono piede. Anche quando ho considerato la possibilità di aprire un canale social mi sono sempre chiesto “ma cos’è che avresti da dire?” e ho lasciato perdere.

Non crede di perdersi un pezzo del dibattito pubblico, così?
Non aprendomi un profilo Instagram? No, non lo credo. Senza offendere nessuno, diciamo che penso che le persone che passano molto tempo sui social non stiano contribuendo granché a nulla.

E le recensioni? Davvero non le legge?
Non le leggo perché le scrivevo, quindi so come funzionano le recensioni. Mi piace leggere le stroncature, quelle davvero cattive, ma ormai nessuno sa più scrivere una stroncatura davvero cattiva. E anche chi è capace di farlo decide di non farlo per motivi che conosco benissimo perché, ripeto, anche io scrivevo recensioni. Tutti si cagano sotto.

Lei ha detto che James non è una riscrittura di Huckleberry Finn ma una conversazione con Mark Twain. Cosa intende?
So che questo libro è stato definito come una sorta di correzione di Huck Finn. Io non ho mai avuto alcuna intenzione di correggere niente e nessuno. Con James, la mia intenzione era scrivere il romanzo che Twain non ha potuto scrivere perché non ne aveva gli strumenti. Non poteva occupare lo spazio psichico e culturale del personaggio Jim, non poteva farlo in un modo sufficiente e sufficientemente giusto da renderlo un vero personaggio. D’altronde, Twain voleva scrivere un altro libro, raccontare un altro personaggio: un ragazzino bianco, quindi libero. Non aveva mai sofferto l’oppressione, Twain. Era bianco, che oppressione avrebbe potuto subire? Ma la questione non è soltanto una di autenticità o di esperienza. Twain, che pure era un uomo colto, soprattutto per la sua epoca, perpetuava tanti degli stereotipi razzisti del periodo. Il suo Jim è un sempliciotto superstizioso perché Twain, senza nulla togliergli, è così che era stato “addestrato” a pensare i neri, è così che li vedeva. Questa rappresentazione degli schiavi persiste ancora oggi. Quello che mi sono chiesto quando ho iniziato a scrivere James è stato “è davvero possibile che gli schiavi fossero tutti così?”. Parliamo di milioni di esseri umani e quindi di una vasta gamma di pensieri ed esperienze, molte delle quali non hanno mai trovato rappresentazione. Il mio obiettivo era portare il lettore a pensare in maniera diversa agli schiavi. Cosa il lettore abbia poi effettivamente pensato non è un problema, io sono uno di quelli convinti che se uno legge davvero un libro non può produrne un’interpretazione sbagliata, al massimo una troppo personale. Ma anche la mia è un’interpretazione personale. Forse troppo.

Le è mai sembrato che Huck Finn fosse offensivo? Per un afroamericano, soprattutto.
No, mai. Basta sapere in che anno è stato pubblicato e offendersi diventa impossibile.

Ha mai pensato di provare la stessa operazione fatta con il Jim di Twain con un altro personaggio di un altro romanzo?
No, per carità. Tra l’altro, la mia operazione non ha tanto a che vedere con un personaggio ma con una questione, quella della razza, da sempre e per sempre centrale nella cultura, nella società, nella storia americana. Solo il Jim di Twain mi dava la possibilità di trattare questa questione in questa maniera, perché è stato il primo romanzo americano a raccontare la schiavitù non come un problema giuridico né come una lotta politica, ma come una condizione che migliaia di persone vivevano e affrontavano quotidianamente.

Negli ultimi anni anche la classe è tornata centrale nel dibattito politico americano, però.
Negli Stati Uniti razza e classe sono la stessa questione.

Torno un attimo a quello che diceva prima, sui lettori e l’interpretazione che danno dei libri. È per questo che sostiene, come ha detto in diverse interviste, che la lettura sia l’atto più sovversivo che un essere umano possa compiere? Per questa capacità di produrre “personalità”?
Assolutamente. La lettura è l’unico spazio davvero inviolabile che possediamo. Io e te possiamo metterci adesso, qui, a leggere le stesse parole, nello stesso momento. Quelle parole avranno su di me un effetto e su di te un altro, e nessuno di noi due avrà davvero mai modo di accedere allo spazio che la lettura ha creato nell’altro. Più che di produrre personalità, credo che la lettura, quindi per estensione la letteratura, ci aiuti a definirci come individui. Che è la ragione per la quale i fascisti, non appena arrivano al potere, una delle prime cose che fanno è vietare o bruciare i libri. Controllare un individuo è troppo difficile, un regime non può permettersi che la persona, attraverso la lettura, che è apprendimento, arrivi a essere un individuo. Altrimenti non riuscirà mai a controllarlo e il regime, semplicemente, non potrà mai costituirsi davvero. Per i fascismi non possono esistere spazi inviolabili, né fuori né soprattutto dentro la persona.

È vera la storia secondo la quale lei ha letto e riletto Huck Finn quindici volte prima di iniziare a scrivere James? Perché lo ha fatto, a cosa le è servito?
Sì, certo che è vera. L’ho fatto perché volevo occupare quel mondo senza pensare alla prosa di Twain. È difficile da spiegare perché sono abbastanza sicuro che tu non abbia mai letto lo stesso libro per quindici volte di fila, per tua fortuna. Sai cosa succede quando leggi lo stesso testo così tante volte? Il mondo che racconta, è come se sfumasse, mi spiego? Ma non scompare, rimane lì, scompaiono tutti quei dettagli portati dalla prosa, dal linguaggio, ma restano le forme grezze, quelle sfumature, appunto, o strutture, se preferisci, che comunemente chiamiamo storia e personaggi. Io volevo arrivare proprio a questo punto, in modo tale da ritrovarmi nello stesso mondo di Twain, a raccontare la stessa storia, con gli stessi personaggi, ma libero dalla sua prosa, avendo io la possibilità di restituire a quelle sfumature una forma di nuovo definita, attraverso la mia prosa, il mio linguaggio. Certo, non ti nego che a un certo punto quel libro mi dava il voltastomaco, sono passati quasi tre anni e non l’ho mai più sfiorato.

Ma perché era così importante liberarsi della prosa di Twain?
Perché il linguaggio può essere un elastico ma può essere anche un cappio.

Visto che stiamo parlando di linguaggio, ne approfitto per farle la domanda su Wittgenstein. È vero che per lei la logica fu la passione giovanile? E che Wittgenstein era il suo idolo? E che studiare logica le ha insegnato a scrivere scene, come ha detto in passato?
Dunque. Nelle interviste io dico un sacco di cose e questa della logica che mi ha insegnato a scrivere per scene non me la ricordo. Però mi sembra una cosa intelligente, la userò da ora in poi, grazie per avermela ricordata. Per quanto riguarda la logica, sì, è stata una delle mie prime passioni, d’altronde all’inizio della mia carriera universitaria avevo deciso di studiare filosofia. La logica è stata probabilmente la prima disciplina alla quale mi sono dedicato con piglio accademico, almeno fino a quando ho letto il Tractatus logico-philosophicus. Libro incredibile, non fraintendermi. Ma leggendolo mi sono chiesto “ma chi mai leggerebbe una cosa del genere?” e ho capito che volevo scrivere cose che gli altri avrebbero letto, così mi sono convinto che il romanzo fosse il mezzo giusto per me. Per quanto riguarda la mia idolatria nei confronti di Wittgenstein, qui voglio essere molto chiaro: penso fosse un genio ma penso fosse soprattutto uno stronzo. Lo sai che trattava malissimo Bertrand Russell? Ecco, semmai, Russell è un mio idolo, e il modo in cui lo bullizzava è un’altra ragione per pensare che Wittgenstein fosse uno stronzo.

Dopo aver deciso di fare lo scrittore, ha continuato a coltivare questa passione per la logica, per la filosofia?
Quando ho potuto, sì. Ho letto i classici e gli antichi, ovviamente. La logica, poi, per me ha quasi a che vedere con l’infanzia. Quando ero piccolo, mio padre mi leggeva la Logica simbolica di Lewis Carroll come storia della buonanotte, per farmi addormentare.

Davvero? Suo padre le leggeva la Logica simbolica per farla addormentare da bambino?
Sì.

E funzionava?
No.

Bene. A proposito di bambini, lei ha detto che Huck Finn è la personificazione dell’innocenza americana. Cosa voleva dire con questa definizione, innocenza americana?
Ripensandoci adesso, forse avrei dovuto dire ingenuità americana, innocenza è una parola con una connotazione troppo morale. Quello che volevo dire è che Huck Finn rappresenta ciò che l’America crede, desidera essere quando si confronta con i dilemmi morali. Quando incontra Jim, Huck sa che Jim è proprietà privata di qualcun altro e che aiutarlo a scappare costituisce una violazione della legge, di ciò che è consentito. Ma Huck sa anche che Jim è un essere umano – e il lettore vede che quello schiavo è l’unica figura paterna che questo ragazzino abbandonato da tutti ha mai avuto – e che nessun essere umano dovrebbe subire quello che sta subendo Jim, perché questa è una violazione della giustizia, di ciò che è giusto. Per Huck è molto, molto difficile sciogliere questo nodo, così come lo è per gli americani, ancora oggi, distinguere tra ciò che è consentito e ciò che è giusto.

Secondo lei questa innocenza, o ingenuità, se preferisce, esiste ancora nella cultura, nella morale americana contemporanea?
No. Credo la cultura americana sia ormai troppo improntata al profitto per perdere tempo con le questioni morali. Affrontare le questioni morali significa studiare, per studiare ci vuole tempo, fatica, e non c’è nessuna garanzia di ottenere soddisfazione. In più, studiare non è mai stata una via, sicuramente non è mai stata la via più breve, verso l’arricchimento. E un percorso esistenziale che non preveda l’arricchimento come fine ultimo e unico è oggi inaccettabile nella cultura americana. In parte, è anche così che si spiega la politica anti-intellettuale di Donald Trump, gli attacchi alle università e agli studenti. L’istruzione, lo studio in America non sono più visti come obiettivi, come cose da desiderare per i propri figli, come cose buone in sé e per sé, capisci? Oggi studiare in America ha senso al solo scopo di permetterti l’accesso a una carriera remunerativa nel futuro. Sembra retorica, lo so, ma l’istruzione ha dato i suoi frutti migliori quando era essa stessa il suo fine, non il mezzo attraverso il quale raggiungerne un altro. I libri vanno letti per le idee e le parole che contengono, e basta. Si impara per imparare, e basta.

È per questo desiderio di imparare che lei ha fatto così tante cose diverse nella vita? Per 14 anni ha fatto il cowboy, poi ha imparato a coltivare le rose, dopodiché ha deciso di mettersi a suonare la chitarra e poi, guardando dei tutorial su YouTube, ha imparato a costruirsi la sua stessa chitarra.
Non la farei così complicata. Sono solo un tizio a cui piace fare le cose con le mani. E mi piace avere scuse per procrastinare il lavoro.

Un’ultima domanda: visto tutto quello che mi ha detto, pur sapendo che, come tutti gli scrittori, lei detesta etichette e categorie, se la sente ancora di rifiutare quella di scrittore politico?
Ma figurati, io non mi definisco neanche scrittore, sono abbastanza presuntuoso per pensare di meritare la dicitura di artista. Ma, ecco, se c’è una cosa che ho sempre saputo è questa: arte e politica sono la stessa cosa.

Pixar ha annunciato un film con protagonista un gatto nero e tutti hanno pensato che ricorda molto un altro film con protagonista un gatto nero

Il film Disney-Pixar si intitola Gatto, è ambientato a Venezia e lo dirige Enrico Casarosa. Il film al quale viene accostato lo potete indovinare facilmente.

Ivano Atzori è sempre arrivato prima

Un libro ripercorre la storia e le tante traiettorie di una figura chiave della cultura contemporanea italiana, dai graffiti di Dumbo all’arte, dall’antagonismo alla moda, sempre con la stessa, ineluttabile, capacità di arrivare prima degli altri.

Leggi anche ↓
Pixar ha annunciato un film con protagonista un gatto nero e tutti hanno pensato che ricorda molto un altro film con protagonista un gatto nero

Il film Disney-Pixar si intitola Gatto, è ambientato a Venezia e lo dirige Enrico Casarosa. Il film al quale viene accostato lo potete indovinare facilmente.

Ivano Atzori è sempre arrivato prima

Un libro ripercorre la storia e le tante traiettorie di una figura chiave della cultura contemporanea italiana, dai graffiti di Dumbo all’arte, dall’antagonismo alla moda, sempre con la stessa, ineluttabile, capacità di arrivare prima degli altri.

Mountainhead, l’ennesimo buon motivo per odiare Big Tech ce lo dà Jesse Armstrong

Il creatore di Succession torna con un film in cui racconta un quartetto di tech bro ricchi, stupidi e crudeli. Ma non così interessanti.

Ronja, la prima e unica serie animata dello Studio Ghibli, verrà trasmessa dalla Rai

Ispirata dall’omonimo romanzo dell’autrice di Pippi Calzelunghe, è stata diretta dal figlio di Hayao Miyazaki, Goro. 

Per ricordare Brian Wilson, Vulture ha pubblicato un estratto del suo bellissimo memoir

Si intitola I Am Brian Wilson ed è uscito nel 2016. In Italia, purtroppo, è ancora inedito.

Brian Wilson, una creatura nelle mani del suono

È stato un dei più grandi compositori del Novecento, anche se non lo si è celebrato abbastanza quando era in vita. Una vita folle che ha rivoluzionato il pop.