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Storia del partito che odiava se stesso

In Quale Pd il giornalista David Allegranti, attraverso le testimonianze dei protagonisti passati e presenti, racconta della nascita, della vita e forse della morte del Partito Democratico.

di Francesco Gerardi

Dopo la svolta della Bolognina imboccata nel 1990 da Achille Occhetto, Nanni Moretti decise di raccontare lo spaesamento e la tristezza degli elettori del Partito comunista italiano in un documentario intitolato La cosa. Il film fu definito la cronaca – quella e basta, Moretti non diceva nemmeno una parola e non si vedeva manco per un secondo in un’ora e mezza di documentario, fatto per lui più unico che raro che dimostra la drammaticità degli eventi – di «un momento unico di autocoscienza collettiva nella storia della sinistra italiana». Era una cosa drammatica, La cosa: dentro c’era il militante comunista che raccontava di essersi separato dalla moglie per dedicarsi anima e corpo al partito in questa delicata fase di transizione storico-politica, c’era l’elettore del Pci romano che sosteneva che per salvarsi il partito doveva tornare alla purezza delle origini e alla durezza di obiettivi come «smembra’ er Vaticano». È a suo modo commovente, La cosa: a guardarlo viene da mettersi nei panni di quelle persone alle quali veniva tolta improvvisamente una cosa tanto cara, e poi viene da chiedersi com’è stato possibile che una cosa come un partito fosse diventata tanto cara a tante persone. Più che un’autocoscienza collettiva, La cosa è –  a posteriori, ovviamente – un’elegia funebre scritta a milioni di mani.

Ho ripensato al film di Moretti leggendo Quale Pd – Viaggio nel partito di Elly Schlein di David Allegranti (Laterza) e mi sono detto che alla fine la differenza tra l’antenato Pci e l’erede Pd è tutta qui: il Pd può essere certamente – ed è spesso – soggetto di autocoscienza collettiva, ma non sarebbe – e non sarà mai – oggetto di un’elegia funebre. L’operazione di Allegranti è assai meno neutra di quella che il titolo del libro suggerisce: più che un viaggio nel partito di Elly Schlein, il libro è una cronaca dello stesso fino all’elezione dell’ultima (in un senso della parola che più volte viene sottinteso come non solo né necessariamente cronologico) segretaria. Come Moretti, pure Allegranti si mette lì e osserva ed evita quasi tutti i commenti, anche se qualcuno ogni tanto gliene scappa comunque. Si sforza di mantenere quasi sempre il piglio freddo del cronista mentre porta avanti il lavoro di taglia-e-cuci tra analisi, ricordi, pentimenti, recriminazioni e sassolini che finalmente si tolgono da scarpe nelle quali erano rimasti a lungo. È una Cosa, il libro di Allegranti, perché leggendolo si ha la stessa sensazione che si ha guardando il documentario di Moretti: cioè quella che chi parla stia parlando di una cosa che smetterà di esistere. Il Pd è fallito, è una delle domande che ricorrono più spesso nel libro. E si dice fallito per non dire morto perché, si sa, la parola non si pronuncia in presenza del moribondo.

Se è vero che a guardare il documentario di Moretti si ha la sensazione di assistere all’elegia funebre di un futuro caro estinto, leggendo il libro di Allegranti si ha quella di ascoltare il rapporto che un medico forense fa di un cadavere. Probabilmente tutto è dovuto al fatto che Moretti faceva parlare i militanti ed elettori, mentre Allegranti i dirigenti ed eletti. Anche questo fatto probabilmente dice cosa è (stato?) il Pd: avesse voluto scrivere lo stesso libro ma usando le parole di militanti ed elettori, Allegranti li avrebbe trovati? In una forma più elegante di questa in cui l’ho messa io, questa è una delle domande più stuzzicanti che il libro pone: chi è e che vuole e cosa muove l’elettore del Pd? Ed esiste, l’elettore del Pd (nel senso di tipo-categoria, in accezione filosofico-antropologica), al di là di quello che nel libro un insolitamente efficace Peppe Provenzano definisce il mito delle tessere, l’epica del territorio? In Quale Pd però parlano i dirigenti ed eletti, come detto, e quindi il risultato è un libro più che distaccato: proprio freddo. C’è freddezza nel modo in cui i protagonisti del passato remoto e recente del partito parlano dello stesso. Certo sono tutte analisi erudite, ma c’è un punto della lettura, un’epifania probabilmente involontaria, superato il quale tutto diventa più chiaro e anche più triste. È quello in cui Lorenzo Guerini, ricordando i giorni dell’ultimo disastro elettorale e della fine della seconda segreteria Letta, spiega che i dirigenti del partito sembrano avere l’unica preoccupazione di «spiegare agli elettori perché hanno sbagliato a votarci».

E in effetti cosa è la storia del Pd se non una successione di analisi delle sconfitte e, quindi, un perenne processo interno, autoaccusa a cui segue autocondanna di alcuni e autoassoluzione di altri (sempre gli stessi, tra l’altro), in un ciclo perpetuo. Elly Schlein comincia il suo cursus honorum in Occupy Pd: il partito che occupa se stesso, dopo aver rottamato se stesso, ed essersi restaurato ogni volta, e quante altre dimostrazioni servono per capire che questo è un case study psicanalitico, quello del primo partito che odia se stesso. Ognuno di questi cicli ha avuto i suoi eroi, vissuti giusto il tempo necessario a trasformarli prima in zimbelli e poi in nemici, prima in salvatori e poi in traditori: Prodi, Veltroni, Bersani, Renzi, Letta, in mezzo le conferenze stampa contrite di Deborah Serracchiani, suo malgrado diventata icona della sconfitta elettorale, puntuale come il richiamo alla responsabilità che ha portato il partito-erede a diventare il contrario del partito-antenato: se il Pci al governo del Paese, per questioni di equilibri geopolitici internazionali, non ci poteva andare, il Pd, per questioni di equilibri politici interni, per lungo tempo il governo non ha potuto (né voluto) rifiutarlo. Gli obblighi portati dalla dottrina della responsabilità hanno prodotto i tic con i quali ormai identifichiamo il Pd: le congiure ai danni del leader del momento, vissuto quasi sempre come un prestanome necessario ai fini del governo. I continui scazzi correntizi. L’andirivieni di scissionisti e ritornisti, un filone narrativo che produce infiniti sequel parte di un universo narrativo in costante espansione. Le alleanze come riprese registiche: panoramiche, poi campi larghi, dopo campi stretti, alla fine soggettive. Le reliquie del partito popolare di massa portate in processione nelle ormai rarissime occasioni di comunanza tra partito ed elettori: da qui il culto delle primarie. A leggere Quale Pd, a sentire la storia raccontata dai suoi stessi protagonisti, si capisce che l’opposizione è quel periodo di riposo e oblio necessario alla perpetuazione di qualsiasi forma di esistenza.

Ed Elly Schlein, che è nel sottotitolo del libro ma che dello stesso è tutto sommato un personaggio secondario, è il lusso che il Pd si può finalmente concedere ora che il riposo e l’oblio non sono più scelte ma obblighi (è un partito che vive di costrizioni, il Pd). Forse la parte più crudele e sottile di Quale Pd, quella in cui Allegranti smette per un attimo la freddezza del cronista e si diverte con un what if che dimostra perfettamente il punto del libro, ovvero Quale Pd abbiamo conosciuto negli anni dalla fondazione a oggi. Se il partito avesse avuto per l’ennesima volta la responsabilità/obbligo del governo, si sarebbe mai concesso il “lusso” di eleggere come segretaria Schlein? Quel Pd sicuramente no. Questo Pd chi lo sa. Il punto è capire quale Pd sia il Pd. A più di dieci anni dalla fondazione, ancora non lo ha capito nessuno.