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La religione del panettone a Milano

Ha i suoi luoghi di culto e le sue fenomenologie, dai lievitati stellati a Marchesi e Cova.

di Ernesto Brambilla

La Prima ballerina Margot Fonteyn (1919-1991) compra un panettone in un bar di Milano, gennaio 1957. Foto Enzo Graffeo/BIPs/Getty Images

Ci sono due modi di avvicinarsi al panettone “alla Cattelan”, proposta natalizia della Pasticceria Clivati 1969 di Milano. Il primo è tirar su gli occhiali sul naso, approntare un tono dotto e rimarcare come l’arte pasticciera possa farsi substrato fertile per una creatività che ammicca al concettuale e all’assurdo. Il secondo è derubricare l’idea – un panettone ricoperto, con sopra una vera banana matura e una striscia di pasta di zucchero colorata di grigio a simulare il nastro adesivo – a strumento di marketing per elevare il lievitato natalizio agli onori delle cronache. Ci sarebbe pure una terza via: mangiarselo, il lievitato, e con esso la banana (la quale, specificano in pasticceria, è stata scelta allo stesso grado di maturazione del frutto utilizzato da Cattelan ad Art Basel Miami Beach per la sua “Comedian”).

Ma non lo si può mangiare tanto facilmente, perché il panettone di Clivati è un pezzo unico, e in viale Coni Zugna stanno pure pensando di inviarlo come omaggio a Cattelan stesso. Ripieno di canditi alla banana, è un’idea nata durante la sessione di scatti fotografici dedicata ai panettoni decorati di Clivati. E visto che in pochi giorni c’è finito di tutto, appiccicato sul muro con lo scotch, dallo scarpino infangato di Gabbiadini dopo la vittoria della Samp nel derby della Lanterna alla bomboletta di gas lacrimogeno messa a muro dalla polizia di Hong Kong per rimarcare ai manifestanti che l’uso della forza deve essere sempre l’ultima risorsa, la trovata non risulta nemmeno più tanto originale.

Distinguersi, e intanto costruire un’immagine notiziabile, è obbligatorio nel mare magnum dei panettoni artigianali che ci piombano addosso? Clivati lo fa coerentemente con la sua immagine, quella di una pasticceria contemporanea, giovane e smart, mascherata nemmeno troppo dietro a una insegna storica tra le zone Solari-Porta Genova. E gli altri? Ha ancora senso legare la città di Milano, con le sue cattedrali della pasticceria, al blasone del panettone in senso allargato? Al netto del lavoro delle 150 imprese dolciarie che producono quello “milanese certificato” come da ricetta depositata in Camera di commercio nel lontano 2003, nel frattempo il panettone artigianale è diventato altro e rappresenta una sfida per tutti, mostri sacri inclusi.

Panettone decorato, Pasticceria Marchesi

Non è una allucinazione collettiva, i panettoni artigianali pesano il 18 per cento del mercato totale in Italia (a valore siamo 50 e 50 con il prodotto industriale), ma nel 2018 le vendite sono cresciute dell’8,4 per cento. Piacciono, sono in linea con il consumo consapevole di cibo, soprattutto per gli under 45 e ancor di più per i giovani sotto i 25 anni. Consumatori sensibili al tema della qualità delle materie prime e della lavorazione, e che hanno imparato a distinguere quella qualità – e non è una frase fatta: chiedete a un maestro dei lievitati che reazione avevano i suoi clienti sei, sette anni fa alla vista dei caratteristici puntini neri nell’impasto, che certificano l’utilizzo di bacche di vaniglia piuttosto che del solo aroma (spoiler: venivano scambiati per impurità o peggio e guardati con orrore).

Spiega a Rivista Studio Carlo Meo, esperto di comportamento di consumo: «A parte il tiramisù, che è un dolce da ristorazione, la pasticceria italiana non ha avuto altri prodotti identificativi di pari valore. Il panettone lo è diventato: semplice concettualmente e da consumare, un prodotto lievitato che viene dal forno, con un’aura ancestrale ma “ricettabile”, che si presta alla personalizzazione e ad accogliere creatività nella farcitura. La pasticceria è, nel settore food, il comparto più legato all’estetica e che più ci sta investendo, e il panettone, con la sua forma iconica e la sua storia, fa filotto». Tramontata l’aura dei brand che ne hanno fatto la storia come prodotto di largo consumo (Motta, Melegatti, Alemagna e compagnia), alcuni ancora presenti nel mercato del panettone-commodity, gli ultimi anni hanno aperto il campo alle pastry star e agli chef che mettono la firma sul lievitato da ricorrenza. Iginio Massari, venerato maestro della pasticceria italiana consacrato dalla visibilità televisiva da Masterchef in giù, dallo scorso anno è presente anche a Milano, in piazza Diaz. Il suo panettone bresciano (più basso del milanese, con la glassatura all’amaretto e gli zuccherini) esce da un laboratorio high tech dotato di tecnologie israeliane, e sull’e-shop del Maestro è tutto sold out da giorni. A poche centinaia di metri, Carlo Cracco quando si è trasferito in Galleria lo scorso anno ha assoldato il pasticcere creativo Marco Pedron. Allievo dell’altro grandissimo del dolce italiano Luigi Biasetto, Pedron ha estratto dal cappello il Panfico, un lievitato prodotto con farina integrale di crusca e farina siciliana con grani antichi, fico e limone canditi, uvetta rinvenuta con succo di agrumi e fave tonka. Gli chef tristellati Niko Romito e Massimiliano Alajmo hanno scelto la partnership con Peck, con edizioni limitate in 150 pezzi del panettone “Moro di Venezia” di Alajmo e del panettone al cioccolato di Romito.

Si potrebbe andare avanti a lungo. C’è, però, un secondo filone, milanesissimo se parliamo di panettone: quello dei luoghi del consumo che identificano l’eccellenza pasticciera storicamente sedimentata in città. «Sono i Cucchi, Marchesi, Cova, Sant’Ambreous. Le pasticcerie storiche delle quali nessuno ha saputo per anni (e tutt’ora importa poco) il nome del pasticcere», spiega Meo. Non interessa, perché il magnetismo di quei brand è tutto sul bancone, alle pareti, negli arredi. E si trasferisce sui prodotti. Tutti hanno sempre proposto il panettone, tutti continuano l’offerta, perché è la sua età dell’oro. Conquistano con le confezioni preziose fatte a mano, nastri di raffinata fattura, decorazioni-scultura, ricercate e magari un po’ fuori dal tempo; alcuni restando fedeli al panettone uvetta-canditi e stop, altri adeguando la ricetta e introducendo varianti. Non è un caso che i più importanti luoghi storici del consumo dolce extra lusso siano stati acquistati da grandi brand della moda. Cova, in via Montenapoleone, è di proprietà del gruppo Lvmh dal 2013, e intanto propone un cadeaux dolce tradizionale, all’ananas, allo zafferano, al cioccolato o ai datteri e albicocca. Con l’incarto ornato da nastri annodati a mano, e scelto da un catalogo che si presenta con una cartolina di auguri sulla prima pagina, firmata «La grande famiglia Cova». Ci ha messo la testa anche Dolce & Gabbana, senza comprare una pasticceria storica, ma “adottando”, dal 2018, il panettone del maestro siciliano Nicola Fiasconaro. Come? Firmando la latta che contiene il panettone tradizionale al vino perpetuo Vecchio Samperi. La trovata è l’aggiunta di una boccetta di profumo alimentare, da 30 grammi, da vaporizzare sulle fette di panettone per esaltare l’aroma del vino già presente nell’impasto. Marchesi 1824, comprata da Prada nel 2014, ha da pochi mesi superato la Manica, approdando nel lussuosissimo quartiere londinese di Mayfair. A Milano è sempre in via Santa Maria alla Porta, in Montenapoleone e in Galleria, e oltre al tradizionale lievitato milanese quest’anno punta su due varianti: il panettone pere e cioccolato e quello con marroni canditi. Versione decorata a mano, su ordinazione: paesaggi londinesi, angioletti e trenini natalizi, e raffinatissimo decoro-gioiello sul pandoro.

Panettone Dolce & Gabbana, Pasticceria Fiasconaro

Siamo anni luce distanti dalla banana appiccicata sul panettone Clivati? No, sono ammiccamenti tarati su target diversi. E così torniamo al punto di partenza: quelli che osano, che non hanno il blasone ottocentesco ma che rappresentano la milanesità sfacciata. Sono i “newcomer”, quelli che stanno arrivando o che entreranno in scena a brevissimo. Con i quali, volenti o nolenti, gli sfarzi delle cattedrali di cui sopra devono fare i conti. Così, trovi un Davide Comaschi, talento vero del cioccolato e World Chocolate Master 2013, con il suo corner all’ultimo piano della Rinascente. A 4 euro al pezzo sono in vendita le sue praline *Panettone Milano*, nelle quali ha fatto confluire i sapori del lievitato natalizio. All’assaggio si trova la morbida ganache con tracce di arance candite, uvetta passa ed essenze di vaniglia e burro. La novità dell’ultimo anno è stata l’apertura di Starbucks con la Reserve Roastery in Cordusio. Poteva non proporre il panettone? No, e infatti sono due le referenze: quello “premium” e il classico. In proposito si narra di incontri rocamboleschi sui Frecciarossa in uscita dalla Stazione Centrale, con adoranti aficionados carichi anche di 6,7,10 panettoni “reserve”.

Farsi largo non è solo questione di muscoli. A un passo da Porta Romana e dal futuro quartiere che sorgerà sullo scalo omonimo, crescono i ragazzi di Marlà, pasticceria fresca e giovane con un anno di vita. L’ex lievitista di Pasticceria Martesana è in laboratorio e si cimenta con i panettoni per la prima volta dall’apertura, con esiti rimarchevoli (c’è anche allo strudel, con mela candita, cannella, uvetta e marsala). In zona c’è Davide Longoni, panificatore 2.0 (del resto il panettone nasce nel forno del panettiere, e il pasticcere arriva dopo, appropriandosene) e i suoi panettoni prodotti con lievito madre coccolato e riverito. Occhio al Longoni, perché per il 2020 si è preso sotto l’ala Mauro Iannantuoni, il responsabile di pasticceria del laboratorio di Ernst Knam. Insieme vogliono – pensa un po’ – fare studio sui lievitati, anche dolci. Una collaborazione che è naturale seguito dell’esperienza di novembre, che li ha visti ideare insieme un panettone tutto con materie prime californiane, a San Francisco, cullati dall’incubatore di startup del mondo food Kitchentown. Il prossimo sulla lista è Ciacco, la creatura del gelatiere-scienziato Stefano Guizzetti, in via Spadari. Sì, un gelatiere, ma non per proporre il gusto al panettone (cosa che peraltro già fa, assieme a mille altri). Si sta attrezzando per il futuro, per produrre un suo panettone nel laboratorio di Parma, ma si muoverà solo se e quando il risultato lo convincerà. Il più convinto è, invece, poco fuori Milano. Giacomo Besuschio, erede della famiglia proprietaria della Pasticceria Besuschio di Abbiategrasso. Parliamo di uno che che ha raccolto l’eredità dell’intero albero genealogico (la pasticceria è lì dal 1845) e che ha vinto concorsi con i suoi dolci alla farina di grillo (ci ricordiamo quando sembrava che tutti dovessimo mangiare locuste e scorpioni di qui a un paio d’anni?). Ha 26 anni e sul panettone spende le sue migliori notti. L’allure sciccoso c’è, vista la storicità del luogo sotto i portici del centro città, a pochi chilometri da Milano. Le tre torte Gambero Rosso, pure. La sostanza anche: l’ultima creatura di Giacomo e del padre Andrea è un panettone da 750 grammi con caffè espresso nello sciroppo del primo impasto e caffè macinato con il burro del secondo impasto, per accentuare, senza rendere invasivo, il gusto di caffè; farcitura con cioccolato biondo, al caramello, e noci pecan. La chicca è che nasce accanto a un forno a mattoni refrattari vecchio di 80 anni e ancora funzionante, che fu teatro dei primi esperimenti sulla produzione del panettone in numeri importanti. A condurli erano in tre: il bisnonno di Giacomo, un tale cavalier Motta e un certo signor Alemagna di Melegnano. Così, giusto per chiudere dimostrando che a volte si può rispolverare l’abusatissimo binomio “tradizione e innovazione”.