Hype ↓
16:40 giovedì 11 dicembre 2025
La casa di Babbo Natale in Finlandia quest’anno è assediata non solo dai turisti, ma anche dalle truppe NATO L’escalation al confine russo ha trasformato la meta turistica natalizia della Lapponia in un sito sensibile per l’Alleanza Atlantica.
Il governo americano vuole che i turisti rivelino i loro ultimi 5 anni di attività sui social per ottenere il visto Vale anche per i turisti europei che dovranno consegnare la cronologia dei loro account su tutte le piattaforme social utilizzate.
D’ora in poi su Letterboxd i film si possono anche noleggiare I titoli disponibili saranno divisi in due categorie: chicche del passato ormai introvabili e film recenti presentati ai festival ma non ancora distribuiti su altre piattaforme.
Da quando è stata introdotta la verifica dell’età, nel Regno Unito il traffico dei siti porno è calato ma è anche raddoppiato l’utilizzo di VPN Forse è una coincidenza, ma il boom nell'utilizzo di VPN è iniziato subito dopo l'entrata in vigore della verifica dell'età per accedere ai siti porno.
Secondo una ricerca, nel 2025 abbiamo passato online più tempo che durante i lockdown Oramai i "vizi" presi durante la pandemia sono diventati abitudini: ogni giorno passiamo online tra le quattro e le sei ore.
Si è scoperto che Oliver Sacks “ritoccò” alcuni casi clinici per rendere i suoi libri più appassionanti e comprensibili Un'inchiesta del New Yorker ha rivelato diverse aggiunte e modifiche fatte da Sacks ai veri casi clinici finiti poi nei suoi libri.
Lo 0,001 per cento più ricco della popolazione mondiale possiede la stessa ricchezza della metà più povera dell’umanità, dice un rapporto del World Inequality Lab Nella ricerca, a cui ha partecipato anche Thomas Piketty, si legge che le disuguaglianze sono ormai diventate una gravissima urgenza in tutto il mondo.
È morta Sophie Kinsella, l’autrice di I Love Shopping Aveva 55 anni e il suo ultimo libro, What Does It Feel Like?, era un romanzo semiautobiografico su una scrittrice che scopre di avere il cancro.

Overdressed

La donna che scoprì di avere sette paia di mocassini e dichiarò guerra al fast fashion

23 Luglio 2012

Elizabeth Cline ha più di trent’anni ma meno di quaranta, un armadio ben organizzato, e un grosso nemico. Ci ha scritto un saggio e l’ha chiamato Overdressed.

Il nemico, qui, è la cosiddetta “fast fashion”. In concreto, gli abitini colorati sfornati da mega-catene di montaggio che a noi si raccontano come amiche generose: Forever 21, Target, Gap, Kohl’s, UNIQLO, Old Navy, ma anche i rami americani di imprese nate altrove, come H&M e Zara, che dal resoconto sembrano offrire prodotti ancora inferiori alle controparti europee. Tutti uniti nell’offrire merce a poco prezzo, abbassando le aspettative di vita dei vestiti e il loro valore affettivo prima che economico. E il punto di vista scelto da Cline, per raccontare quello che c’è dietro, è quello dell’ex fast fashionista pentita. “Guardatemi, ero una di voi / Ora sono cambiata, ma non dimentico”.

Classica personalizzazione del conflitto, giusto. Consumatore vs. industria; privata cittadina vs. La Macchina. Una tattica che comunque, all’interno del saggio, funziona, e ammorbidisce la voce narrante. Il prologo ci mostra Cline mentre si butta su «sette paia di mocassini di tela», messi in svendita in un supermercato Kmart, identici tra loro se non per il colore. Sette dollari al paio. La durata di queste scarpe è minima; le si sfasciano ai piedi, e quelle che non ha distrutto entro un’estate le sono venute a noia, le nasconde in un punto cieco dell’armadio. (Armadio che poi, come testimonia il blog The Good Closet, Cline ci ha messo mesi a ripulire, quando ha deciso che era arrivato il momento.)

Le Sette Paia di Mocassini sono un ottimo punto di partenza. Sono anche il punto in cui, fatalmente, qualcuno si incazza. E dice (tiro a indovinare): «va bene inseguire i saldi, ma se compri sette copie quasi uguali di un prodotto, a un certo punto te la stai andando un po’ a cercare». La cifra pesa. Sette. Da lì proseguiamo con l’eroina che tira fuori tutti i suoi vestiti dallo storage dove li aveva sistemati, li conta, si accorge di possedere «61 top, 60 T-shirt, 34 canottiere, 21 gonne, 21 maglioni…», per un totale di 354 capi. Di fronte a numeri simili qualcuno parlerà più volentieri di bulimia dell’acquisto, o di abitudine maniacale, e dirà che il problema di Cline era la quantità, non la scarsa qualità. (Anche se: quanti di voi hanno comprato tre canotte di [marchio abbigliamento intimo specializzato in microfibra] perché quel giorno c’era il tre per due sulle canotte? E magari ne hanno prese una rossa, una nera e una bianca, così da sentirsi bravi risparmiatori?) Qualcuno altro liquiderà la faccenda con un «tipica roba da americani, noi siamo diversi, perché abbiamo…» – non lo so, il senso del sacro forse? La pizza? Missoni?

Va bene, ci sto. Ammettiamo che in questo esista una forte differenza tra Stati Uniti ed Europa. Per dire: i prezzi degli H&M italiani sono bassi, e i loro prodotti non eterni, ma non ho mai sentito una maglia di H&M disfarsi sotto le mie indegne dita, come è accaduto ai pullover di lana a euro 9,99 offerti da [marca abbigliamento nazionale con campagne pubblicitarie del genere Marilyn Monroe bacia Hitler]. Un tratto comune alla fast fashion, al di là dei singoli paesi, è lo stuzzicare una fantasia precisa delle donne.

Dovrei dire “di uomini e donne”, perché molte se non tutte le catene citate nell’inchiesta di Cline hanno reparti maschili, bambini, unisex. Irrilevante. Qui si punta alla donna come primo forte soggetto. La donna compra per sé, per i figli, a volte per l’uomo. Alcune fanno acquisti da […] perché non hanno scelta. Altre sono disponibili a spendere per mangiare cibo biologico o guidare una bella macchina, ma non per i vestiti. Succede.

La fast fashion, la donna, la prende in giro. L’idea di base è “anche tu puoi essere bella e alla moda spendendo poco!”. In tempo di crisi, quell’idea si declinerà in “là fuori è un brutto mondo, ma qui dentro ci divertiamo lo stesso! Rinnova il tuo guardaroba con quattro soldi! Trattati bene!“. Però la fast fashion non è “alla moda”, perché imita, di solito male e in maniera frettolosa, le ultime novità della moda ufficiale. Esistono laboratori di sartoria che copiano al volo gli abiti indossati dalle celebrità sui tappeti rossi più importanti, e che il giorno dopo offrono alle loro clienti una versione di quegli abiti a un prezzo contenuto. La fast fashion prende questo modello produttivo e lo trasporta sullo scenario del discount. E la moda vera non sarà meno cinica in termini di consumo accelerato e tendenze calate dall’alto, ma forse garantisce di più in termini di confezione e di qualità dei materiali. (Ho detto “forse”, grazie.)

A parte le considerazioni politiche, come il costo ambientale di questa iper-produzione, i danni causati alla manifattura e il fatto che oggi il poliestere sia il tessuto più diffuso al mondo, il punto forte del lavoro di Cline è il suo lato emotivo. La fast fashion non ti fa sentire “bella”, perché non è fatta per stare addosso a una varietà di corpi; a misure generiche, tagli generici. Non veste troppo bene. Però fa leva sul mito del bargain, del super-saldo. Mantiene vivo il sogno del “fare l’affare”. Questo porta a tornare ogni stagione negli stessi negozi, a comprare roba brutta e a comprarne più di quanta ne serva, in un accumulo difficile da interrompere (a nessuno piace mettere ordine tra scelte sbagliate) il cui unico senso è continuare a farti sentire sciatta, non curata, bisognosa di stile. Il prodotto è sempre

nuovo e disponibile, ma la merce non ti da alcuna soddisfazione. Non hai un forte rapporto personale con quello che poi ti metti, e che agli occhi di qualcuno – se non ai tuoi – contribuisce a definirti. (E’ quasi commovente, la pura merce.) Però l’hai pagata pochissimo questa roba brutta. Al massimo la dai ai poverelli, no?

E qui si arriva al peggio del peggio: l’usato.

La fast fashion intasa il lavandino della beneficenza. Cline visita una sede newyorkese dell’Esercito della Salvezza dove gli abiti donati vengono smistati a vari punti vendita. Solo una parte minima arriva nei negozi, e di quella parte (11.200 capi al giorno) solo una fetta trova un compratore, per quanto basso sia il prezzo; tutti gli altri vengono compressi in grandi cubi tipo spazzatura e convogliati fuori città, in un magazzino dove il salvabile è spedito in Africa, per venderlo ai locali. Il resto finisce in stracci. (Mi dicono che lo stesso accade alle cose depositate nei cassoni gialli della Caritas.) Il mercato dell’usato e delle opere pie assorbe molto meno di quanto si creda. Ecco che crolla un altro mito: intorno a te non c’è nessuno che vuole davvero i tuoi brutti avanzi.

Alla fine Cline tenta una pars construens, in modo non ideologico. Se La Macchina è impossibile da fermare, la donna-cittadina-consumatrice può smettere di nutrirla. Qualche alternativa c’è: prendere contatto con i sarti della città o del quartiere, che cominciano ad aumentare di numero (anche da noi) dopo anni di serrande abbassate; cercare i laboratori che offrono qualche corso-base, non per diventare maestre d’occhiello, ma almeno per imparare la differenza tra pessimo cucito e buon cucito, e saperli distinguere quando si va a fare spese; rimettere a posto quello che già si ha. Comprare meno spendendo di più.

Per qualcuno, queste conclusioni saranno figlie di un generico “buon senso”, non di una rivoluzione nel guardarsi allo specchio o di un ritorno alle migliori abitudini della borghesia, che trasformava i vestiti molte volte prima di mollare il colpo. Può darsi. Ma che una persona abbia scritto un’inchiesta vera sulla fast fashion, non un altro allucinante inno alle gioie degli acquisti insensati (tee-hee, ho troppe scarpe, sono proprio una cretina!), mi riempie di fiducia. Forse non dovrebbe.

Articoli Suggeriti
Se anche Demna si fa prendere dalla nostalgia allora per la moda è davvero finita

La nuova collezione Gucci fa emergere un fenomeno già ovunque: l’industria della moda sta guardando sempre più al passato, spesso a scapito di innovazione, immaginazione e persino salute collettiva.

Dario Vitale lascia Versace, appena nove mesi dopo esserne diventato direttore creativo

Era stato nominato chief creative officer del brand, appena acquisito dal gruppo Prada, a marzo di quest'anno.

Leggi anche ↓
Se anche Demna si fa prendere dalla nostalgia allora per la moda è davvero finita

La nuova collezione Gucci fa emergere un fenomeno già ovunque: l’industria della moda sta guardando sempre più al passato, spesso a scapito di innovazione, immaginazione e persino salute collettiva.

Dario Vitale lascia Versace, appena nove mesi dopo esserne diventato direttore creativo

Era stato nominato chief creative officer del brand, appena acquisito dal gruppo Prada, a marzo di quest'anno.

La moda è diventata imbarazzante?  

Premi di cui a nessuno fuori da quelle stanze importa molto, un generico e sempre più spiccato distacco dalla realtà, gli evidenti problemi con i corpi delle donne: come un sistema intero sta affrontando questi anni difficili (spoiler: abbastanza male).

Anche stavolta il premio di Designer of the Year l’ha vinto Jonathan Anderson

È la terza volta consecutiva, stavolta ha battuto Glenn Martens, Miuccia Prada, Rick Owens, Martin Rose e Willy Chavarria.

Il nuovo progetto creativo di Maison Valentino realizzato con l’AI è la dimostrazione che analogico e digitale possono convivere

Per farlo, il brand ha reclutato nove artisti digitali che hanno trasportato la borsa DeVain in universi alternativi

Tailoring Legends e gli 80 anni di Brioni

Dal debutto nel 1945 a Roma fino a oggi, da Clark Gable a Bret Easton Ellis, vi raccontiamo la mostra organizzata al Chiostro del Bramante per celebrare la storia del brand.