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Scene di lotta di classe a Orticola

L'evento dei Giardini Indro Montanelli è un paradiso floreale aristocratico che ogni anno ci ricorda una cosa semplice: le differenze di classe esistono.

di Gabriele Ferraresi

«Quando lavoravo da Marcelo [Burlon, nda] qui davanti, venivano le sciure col maggiordomo a caricare le piante sui furgoni. Ma ti dico, decine di piante, per portarle a casa. Una volta una ha fatto caricare in pratica una serra sul furgone, gli ha fatto fare duecento metri in via Manin, ha fatto scaricare tutto» ricorda un amico, oggi art director di buon successo internazionale che incontro a Orticola domenica mattina. È una fotografia, un piccolo ricordo il suo, e anch’io ne ho di simili gli anni passati in cui sono stato alla più aristocratica manifestazione florovivaistica milanese: un posto dove avere due, tre, perché no quattro cognomi, non è sicuramente obbligatorio, ma comunque male non fa. Il biglietto d’ingresso di questa verde esplosione di non tanto quiet luxury all’interno dei Giardini Indro Montanelli è alla portata di tutti, costa 12 euro e si può fare solo online, ma una volta entrati, si avverte subito la differenza. La differenza che tra chi è venuto coi mezzi pubblici dalla periferia, o in auto dall’hinterland, ma anche solo da piazza Carbonari, da Lambrate, addirittura da NoLo, e chi è venuto a piedi dalle vie del quadrilatero, che distano poche centinaia di metri.

O almeno, io quella differenza la avverto e me ne importa zero, perché Orticola è bellissima, fa star bene farsi una passeggiata una domenica mattina in mezzo a piante meravigliose arrivate da tutta Italia; se amate il verde, se avete qualche centimetro dove mettere una pianta in casa, un balcone, un terrazzo, fa bene andarci, fa sognare, c’è di tutto. Ogni anno mi fermo da Enzo Maioli e dai suoi frutti antichi. Mele, pere, prugne e altro che non vedremo mai sugli scaffali della Gdo, perché viziati da qualcosa di inconcepibile per gli standard estetici del mercato: sono frutti brutti. Ma se uno ha un po’ di terreno, può piantarseli e goderne. E penso sempre tra me e me «Ma chi è che conosco che ha un terreno, e lo spazio per farsi un frutteto tra i miei coetanei quarantenni? Ecco: nessuno». Passeggiare per Orticola è così una contrapposizione totale al caos della città che viviamo durante la settimana, durante le nostre vite normalmente di corsa, col lavoro, i figli, così via, insomma, durante le vite come tutti che hanno fatto prima di noi i nostri genitori, ci fa immaginare o sperare il ritorno a vite rurali, agresti, a un’arcadia contadina che probabilmente non è mai stata tale. Orticola, e credo sia abbastanza unica in questo, sa giocare con un lato aristocratico dovuto alle origini nobili, nobilissime della manifestazione, fondata e gestita dal 1865 a oggi dai nomi e soprattutto dai cognomi che hanno fatto la storia di Milano.

Basta sfogliare la brochure con mappa di questa edizione per imbattersi nei nomi che compongono il consiglio dell’Associazione Orticola di Lombardia: dal Presidente – dal 1996 – Gianluca Brivio Sforza, alla Vicepresidente Giulia Santagostino Negri da Oleggio, al consigliere Pierfausto Bagatti Valsecchi… È una Milano, quella che organizza Orticola, che suppongo non abbia grosse ansie dovute al caro affitti o a un costo della vita diventato completamente insensato – a proposito: domenica mattina, due caffè, due brioche, un’acqua, nell’unico bar aperto in piazza Cavour: 11,50 euro – ed è normale che sia così se le più incantevoli case museo della città sono intitolate ai tuoi avi. Sfogliando le foto di questa edizione poi vedo le facce degli organizzatori – Federico Fellini diceva che ognuno ha la faccia che merita, che la vita non sbaglia, e quanto aveva ragione – e quelle di chi non ha un albero genealogico che risale fino all’anno 1251, e avverto ancora quella differenza, impercettibile, inafferrabile. Che cosa c’è di diverso, che cosa hanno di diverso nello sguardo loro e noi? Perché se guardo una foto della vicesindaca di Milano Anna Scavuzzo a Orticola avverto un’affinità piena, sento che tutto sommato facciamo parte della stessa squadra, mentre se guardo altre foto, la cui didascalia si allunga su due righe per quella faccenda dei cognomi, avverto non certo un’ostilità di fondo – uno non ha né colpe né meriti se è nato come è nato, per carità – ma sento una distanza incolmabile, un «Probabilmente, non ci capiremo mai» pieno, assoluto.

Mi sento imbucato tra le pagine di Vicino e distante, un bel libro di Camilla Cederna dove proprio le famiglie alto borghesi e aristocratiche milanesi vengono vivisezionate, dai nobili da secoli o millenni ai «benestanti borghesi, perlopiù setaioli, lanieri e cotonieri che sono all’onor del mondo da almeno tre o quattro generazioni» un tempo in cui sicuramente i miei di avi zappavano, semianalfabeti, la terra. Dopo Cederna non c’è stato più nessuno a Milano, a studiare «la società» con quel livello e quella intelligenza, e quel mondo alto o altissimo borghese meneghino è come fosse sparito, ma esiste ancora, va ogni anno oppure direttamente organizza Orticola, e abita, di solito, piuttosto in centro.

Rifletto su questo mentre vago per Orticola con la mia compagna e i miei figli e passo davanti allo stand di piante acquatiche e palustri, mi ci fermo ogni anno, e come ogni anno penso: «Ma quanto spazio devi avere per avere uno stagno? Per comprarti delle ninfee? Quanto spazio devi avere per avere un laghetto di cui prenderti cura? Chi è che conosco che ha un laghetto? Anche artificiale, dico». Così, passeggiando tra gente normalissima e gente elegantissima, tra sguardi normali e sguardi che mi fanno sentire fuori posto come Fantozzi a cena con la Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare – cioè Marta Marzotto, era lei l’ispirazione – tra cani normali e cani chiaramente fuori dal comune, quindi coppie di levrieri afgani, tris di bassotti a pelo raso, bulldog da concorso, mi fermo infine a scambiare due parole con una ragazza della Clinica Botanica, che regala dei semini di fiori di campo a mio figlio grande. A Orticola spesso regalano semi di fiori ai bambini, è un gesto gentile: grazie.

La Clinica Botanica fa una cosa che non sapevo si facesse: in sostanza, salva piante che andrebbero buttate via, piante usate per alimentare il consumo vistoso della città degli shooting, degli eventi, delle settimane dedicate a qualunque cosa: quelle piante che farebbero una brutta fine in un bidone dell’umido le recupera e le salva. Lanceremo quei semini in un prato dissodato da delle ruspe proprio sotto casa mia, Bicocca, estrema periferia nord: vedremo che cosa cresce.