Nel 2015 ha fondato e dirige una delle case editrici più interessanti in Italia. Pubblicando nuove voci italiane e stranieri di successo ha dimostrato che si può vincere la crisi, che i lettori cambiano ma la lettura resterà sempre.
«Non so se arrivo a Natale»: è stata la prima frase che è passata sicuramente per la testa, dopo la notizia della morte di Ornella Vanoni, a chi conosce a menadito il repertorio della pagina Prossimi Congiunti. Una frase che era già cult quando l’aveva detta a Fazio nel 2021, e che speravamo restasse solo un motto da riciclare nelle chat. E invece no, è diventata vera in un venerdì gelido di fine novembre, con qualche Natale di ritardo ma con la puntualità delle predizioni di chi della vecchiaia e della morte non ha mai avuto paura.
Ho potuto incontrare Ornella Vanoni tre anni fa, al cinema Anteo di Milano, in occasione della presentazione di Senza Fine, documentario a lei dedicato. Tutta la sala rideva a ogni sua battuta: sapeva dire cose crudissime mantenendo la leggerezza di chi trova divertentissima recitare a voce alta il proprio testamento. Una sagacia che teneva insieme serietà e parodia, senza scalfire la sua intoccabile credibilità.
La vecchiaia come performance
In Vanoni non c’è mai stato pudore. E non c’era vergogna nemmeno nel suo invecchiare, nella sua voce che si faceva sempre più fievole, nelle parole sempre meno scandite. C’era piuttosto la fierezza, e spesso la stanchezza, di una vita lunga 91 anni, di una femminilità libera e mutante. Vanoni è stata tante cose: interprete della “canzone della mala”, artista bossa nova, jazzista, narratrice di se stessa, autrice, interpreta, amante, socialista, pettegola, comica. Lei attraversava l’età con calma, osservando tutto e decidendo cosa poteva fare ancora al caso suo e soprattutto cosa no, con quell’autoironia che l’ha sempre abitata e che con l’avanzare dell’età è uscita fuori sempre più irresistibilmente smodata.
Dalle imitazioni di Virginia Raffaele ai numerosi flirt smentiti (primo fra tutti quello con Califano), dalle stoccate al genere maschile, da cui non veniva escluso neanche Gino Paoli, fino ai mugugni davanti alle domande dei giornalisti alla Prima della Scala: il personaggio di Ornella viveva in quella zona di frontiera dove realtà e iperrealismo si mescolano. E finalmente, a un certo punto, ha potuto ammettere che «quella sfigata de “L’Appuntamento”» in fondo non le era mai andata troppo a genio: quella ragazza che aspettava e aspettava non era altro che una vittima di ghosting ante litteram, senza saperlo.
La sua vera resurrezione pop è arrivata sul finire: Ornella Vanoni come icona-meme, santino digitale, sticker da salotto virtuale. Ed è così che nell’ultimo decennio di vita della cantante si è scatenata sul web quella che chiamiamo oggi l'”Ornella Vanoni-core”, che ha contribuito ad avvicinare tutte le generazioni alla sua figura magnetica. La Gen Z non l’ha adottata “per rispetto” ma per innamoramento: perché nessun altro aveva quella capacità di passare dal tono della zia aristocratica a quello dell’amica che si lascia andare alla confessione delle proprie debolezze.
Era perfetta per internet: l’occhio al cielo, i sospiri, le frasi a caso, quel modo di dire verità assolute e atemporali. Bastava un suo “Scelofanalo” e TikTok esplodeva. Bastava un’espressione storta e diventava sticker su WhatsApp. La sua comicità involontaria (ma mai inconsapevole) era patrimonio internettiano. Ma Vanoni è piaciuta internet, e soprattutto alla Gen Z, perché è stata innazitutto portavoce di un attaccamento raro alle proprie emozioni. Parlava apertamente di dolore, di quella depressione lunga, mai nascosta, testimone di un’umanità che andava oltre ogni successo. Un’antenata spirituale della Gen Z non solo nel sarcasmo, ma soprattutto nella cura e nella consapevolezza di sé.
Era curiosa dei giovani, davvero. Ha collaborato con Colapesce e Dimartino, con Mahmood, invitava artisti come Joan Thiele a cena, a Marracash diceva che «se avessi 30 anni di meno ti sbatterei al muro». Cercava una badante capace di rollare le canne. E la prima volta che ho sentito “Ti Voglio” al C2C 2018 in chiusura del set di Jamie xx ho pensato, senza nulla togliere al resto, che fosse la cosa più avanguardista di tutto il festival.
Diventare un meme vivente come simbolo di eternità
Vanoni non era un meme perché iniziava a perdere colpi, ma perché continuava a essere avanti: aveva capito che la mitologia non serve se non ti puoi ridere addosso. La Gen Z l’ha amata proprio per questo: per quella libertà sfacciata, per il suo essere “una diva che ha capito il proprio tempo senza farsi capire dal tempo”. Invecchiare, nelle sue mani, è diventato qualcosa di cool: la prova che si può arrivare a 90 anni con un carisma talmente contemporaneo da entrare nella cultura digitale come se niente fosse.
Ornella voleva dissacrare se stessa. Sgonfiare ogni aura, smontare la divinizzazione. Dire apertamente che quel bilancio che diceva di non aver quadrato mai, lentamente un suo equilibrio lo aveva trovato. E infatti è arrivata a tutti: ai fan di una vita, ai giovani, a quelli che, come simbolo di un certo snobismo meneghino, la trovavano altezzosa e di conseguenza spaventosa. Ha ripetuto più volte, in varie interviste negli anni, che non c’era niente di più bello di un corpo da stringere, e a sentirla veniva voglia di abbracciarla.
Ornella era entrata nelle nostre vite in un modo che non permetteva l’idea della sua fine. Sembrava eterna. E oggi fa male perché ci eravamo convinti che lo fosse davvero. Come se quell’eternità che cantava soavemente si fosse finalmente incarnata. Il suo lascito non è solo nei versi: è nella capacità di essere autentica, vulnerabile e relatable fino alla fine, andandosene per malore con l’ultimo desiderio rimasto incompiuto: mangiarsi un gelato, “accanto alla felicità che dorme”.
Nel 2015 ha fondato e dirige una delle case editrici più interessanti in Italia. Pubblicando nuove voci italiane e stranieri di successo ha dimostrato che si può vincere la crisi, che i lettori cambiano ma la lettura resterà sempre.
