David Szalay ha riscritto Barry Lyndon per il mondo contemporaneo, ed è perfetto

Nella carne è una citazione esplicita del film di Stanley Kubrick nella Londra di questo secolo, con una profonda riflessione su cos'è la mascolinità oggi.

28 Ottobre 2025

Da quando abbiamo, con molte ritrosie, iniziato ad accettare che la violenza degli uomini non è frutto di un lampo di isolata pazzia ma, spesso, un distillato di cultura patriarcale, si sono moltiplicate le iniziative di analisi e autoanalisi maschile. Gruppi di autocoscienza, libri, incontri pubblici. Naturalmente, anche tutto il contrario: i rancorosi e arrabbiati timorosi di perdere privilegio o chissà quale aura, che agitano la bandiera della persecuzione di genere e dello slogan “non tutti gli uomini sono così”. A ragionare cosa sono gli uomini del Ventunesimo secolo e come si sviluppa la loro mascolinità lo scrittore David Szalay ha dedicato più o meno tutta la carriera, finora abbastanza giovane e decisamente brillante, inserendo questo filo rosso in una produzione alta e letteraria ma anche fortunata commercialmente, che ha toccato ora il suo punto più alto: con l’uscita di Nella carne, finalista al Booker Prize 2025 e uscito in Italia, per Adelphi, nell’ottobre di quest’anno.

Nella carne è la storia di un uomo che attraversa poco più di mezzo secolo, dagli anni Settanta a oggi, una storia densa di avvenimenti che lo toccano e lo indirizzano: la Guerra Fredda, la caduta del Muro, la guerra in Kuwait, l’Unione Europea e il primo grande allargamento a Est nel 2004, e poi naturalmente il Covid e il conseguente lockdown. Ma è soprattutto la storia di un uomo che nasce umile, tra gli sconfitti in partenza, in uno dei posti più poveri dell’Europa di quel momento – l’Ungheria degli anni finali dell’occupazione sovietica – e che diventa ricco, ricchissimo, per circostanze date dal caso, dall’occasione e dal cinismo che lui sa sfruttare perfettamente. È una riscrittura esplicita, aggiornata al mondo globale, del Barry Lyndon di Stanley Kubrick (non quello di Thackeray, che è diverso). Questo è uno spoiler, se vogliamo usare queste categorie (e non vogliamo), ma è anche il cuore di tutto il romanzo, se volete avere delle istruzioni su quello che vi troverete in mano una volta acquistato Nella carne: la parabola dell’ascesa e dell’inevitabile caduta di un uomo che riesce, nel giro di pochi mesi, a scalare tutte le tappe dell’ascensore sociale, senza riuscire ad aggrapparsi a niente prima di scivolare nel vuoto.

Barry Lyndon contemporaneo

Il protagonista di Szalay si chiama Istvàn, e come Barry è nato in una famiglia povera in cui esiste soltanto la madre, donna di carattere che lo cresce senza viziarlo e che lui ama molto. Istvàn è un adolescente timido, lo potremmo anche chiamare sfigato o freak. Non ha molti amici, ha una relazione con una vicina di casa dell’età di sua madre, poi dei problemi con la legge. Alla fine finisce ad arruolarsi, come Redmond Barry: e va in Kuwait, dove l’Ungheria aveva un continente di pace. Torna, ha la PTSD. Parla poco, lavora poco, sta molto in casa. Risponde «okay» a quasi tutto, per il resto parla quasi niente. Tira un pugno a un muro e si spacca la mano. Non c’è una motivazione. Vive in un posto senza prospettive e fa un lavoro senza prospettive. Non ha relazioni. La madre lo manda da uno psichiatra, che gli dice di prendere degli antidepressivi.

Poi lo ritroviamo a Londra, buttafuori di uno strip club. Il caso o il destino gli fanno conoscere un vecchio molto ricco che lo prende in simpatia, insieme alla giovane moglie. Se avete presente Barry Lyndon, il resto va da sé. In un modo comunque rocambolesco, drammatico e doloroso, Istvàn arriverà a toccare il cielo senza sentirsi mai a casa, e poi di nuovo giù, in pochi anni, perché i parvenu, nel 1763 come nel 2025, non sono desiderati ai piani troppo alti. C’è una citazione esplicita, molto nascosta, che Szalay fa di Kubrick: arriva nella prima metà del libro, quando vediamo Istvàn alla National Gallery, che non sa come esprimere il suo apprezzamento – o la sua indifferenza – per i quadri esposti. Tanto per dire qualcosa alla sua accompagnatrice, dice: «Mi piace come hanno usato il blu in quello». È una delle frasi più lunghe di Istvàn in tutto il libro. Nel film del 1975, Barry – ormai diventato un Lyndon – visita una galleria d’arte per acquistare dei quadri. È goffo, non sa cosa dire, allora azzarda un: «I like the artist’s use of the colour blue, here».

Un romanzo sulla mascolinità

Il romanzo di David Szalay, però, vive di vita propria, e non adatta semplicemente al contemporaneo l’epopea di Redmond Barry: la carica invece di significati nuovi. Come dicevo all’inizio, la riflessione sul maschile. Istvàn rappresenta un uomo che si trova un corpo (e un genere) con un certo potere e una certa potenza, ma non lo dà per scontato. Questo non vuol dire che lo metta in discussione: non è ancora a quel punto, non è così complesso, potrei dire. Però certe volte si trova addosso tutto un disagio, e non sa perché. Sente il corpo che pretende, e lui non sa resistere. Sente il cuore che chiederebbe amore, e il cervello che si domanda perché a lui una relazione vera non tocca mai, e ancora il corpo che le trova tutte uguali, le donne. Scrive Szalay questa frase bellissima, l’adolescenza in poche parole: «E ricorda che lo sbocciare di quella fisicità lo tratteneva dentro come una specie di segreto, nonostante fosse la superficie che di fatto presentava al mondo, così alla fine si ritrovava assurdamente esposto e ignaro se il mondo sapesse tutto di lui oppure niente, perché non aveva modo di scoprire se ciò che gli stava capitando era un’esperienza universale o assolutamente ed esclusivamente sua». È grande e grosso, fa paura, è forte e sa uccidere. Ma le sue emozioni occupano uno spazio completamente diverso, le sue parole pochissime. Quando il corpo vuole qualcosa, lui non ha la forza di opporsi.

Infine, c’è da dire che è interessante la scelta di ri-ambientare una trama come quella di Barry Lyndon nell’epoca odierna, che ci sembra diversissima da quella originale ma forse non lo è così tanto. Due secoli e mezzo dopo, certi aspetti di quel mondo sono tornati nell’aria. Non abbiamo mai parlato così tanto di oligarchia come negli ultimi anni, riferendoci sì ai tecnocrati non soltanto californiani, ma anche al divario sempre più ampio tra il cosiddetto “uno per cento” e il resto del mondo (vi ricordate Occupy Wall Street? Era il lontano 2011): sono passi indietro ampi e decisi rispetto al mondo più uguale per tutti e tutte che immaginavamo a metà del Novecento, e la direzione è semmai quella del mondo di Thackeray. Il cosiddetto ascensore sociale, allo stesso modo, ci appare sempre più spesso guasto, forse irrimediabilmente rotto, e dobbiamo fare quasi come se non esistesse – e nel 1763, infatti, non esisteva affatto. Anche questo è un parallelismo attuale tra Istvàn e Barry, che riescono a scalare la società soltanto per colpi di fortuna e di opportunismo, non certo per meriti o valore.

Ma rispetto a Barry, Istvàn non appare un cinico scalatore. Anzi, si fa trascinare dagli eventi, dalla sorte buona e da quella cattiva. Szalay è da sempre uno scrittore che indaga l’empatia, o la sua mancanza, nel mondo contemporaneo. Istvàn ha questa grande tenerezza che non sa esprimere, non sa tenere in mano e quindi non sa maneggiarla. Troppo dura la pelle del corpo che porta, troppo pesante la cultura di cui è imbevuto. È facile, così, essere sia vittima che carnefice di sé e degli altri.

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