La cospirazione delle colombe, di Vincenzo Latronico, immaginava gentrificazioni e scandali immobiliari milanesi nel 2011. Un'intervista su com'era Milano allora e come è cambiata oggi.
A Milano è arrivata la tempesta. La città che non si ferma, tutto d’un colpo, si è fermata. Questa grande macchina — bella e sghemba, veloce e sfinita, un po’ diva e un po’ fabbrica — dopo anni in corsa a velocità siderale, ha oggi un’occasione rara: quella di rallentare, stare in silenzio e interrogarsi su ciò che è stato, cosa non ha funzionato. Invece di rimuovere, rilanciando. Partendo dall’errore per ricostruirsi, finalmente, a misura di chiunque la abiti. A misura di diversità.
Negli ultimi mesi la città è stata attraversata da una scossa silenziosa e profonda. Le inchieste giudiziarie — che toccano alcuni dei luoghi e dei poteri simbolici della trasformazione urbana e sociale degli ultimi anni — hanno trasformato in cratere la crepa che da anni, un po’ alla volta, si allargava nel racconto di città vincente. Senza entrare nel merito delle vicende, per le quali è doveroso attendere gli esiti dei procedimenti giudiziari con pieno esercizio di garantismo, resta però netta la sensazione di una discontinuità definitiva rispetto a un passato recente che sembrava trionfale. Sono questi i momenti migliori per ripartire dalle domande fondamentali: su quali dinamiche si è fondata Milano negli ultimi vent’anni? Cosa succede quando la retorica dell’efficienza, della crescita costante e dell’attrattività si scontra con le fragilità strutturali, con quelle umane e con le zone d’ombra mai del tutto chiarite? Più che un’accusa, però, serve oggi un cambio di sguardo e al di là di “chi ha fatto cosa”, oggi serve chiedersi: questa città cosa sta diventando?
I numeri della crisi
È Federico Fubini ad evidenziare, sulle pagine del Corriere della Sera, come a Milano si concentri il 40 per cento delle vendite di immobili sopra il milione di euro. Tra il 2021 e il 2024, nelle zone più pregiate, i prezzi sono cresciuti fino al +57 per cento, toccando i 27.000 €/mq (e 39.000 nel Quadrilatero). Questo boom è alimentato anche dal regime fiscale per i “neo-residenti”: una flat tax da 100 mila euro (oggi 200 mila) per chi ha redditi all’estero, introdotta a fine 2016 dai governi di centrosinistra guidati da Renzi e Gentiloni. Dal 2018 al 2023, la città ha attratto almeno 4.500 super-ricchi, due terzi dei quali si sono stabiliti a Milano, spesso comprando casa. Questo meccanismo ha avuto un impatto sul mercato del lusso e sui prezzi medi, saliti del 13 per cento dal 2015. Intanto, 128 mila rientrati con sgravi fiscali (esenzione del 70-50 per cento sull’imponibile) investono nel mattone. Il risultato: un mercato drogato nel quale i super-ricchi che risparmiano sulle tasse comprano casa, mentre il ceto medio paga sempre di più — e spesso viene escluso.
Negli ultimi cinque anni, infatti, i canoni d’affitto sono esplosi: +22 per cento tra il 2019 e il 2024, con punte del +38 per cento in quartieri periferici. Il canone medio richiesto per una casa di 70 m² ha toccato quota 1.625 €/mese — contro i 1.330 € di cinque anni fa. E il prezzo medio al mq ha raggiunto i 5.532 €/m² nel giugno 2025, segnando un +1,4 per cento annuo. Secondo la Caritas Ambrosiana, nel 2023 le richieste di aiuto sono aumentate del +25 per cento, e la povertà cresce anche tra chi lavora, evidenziando una diffusione del fenomeno dei “working poor”. Insegnanti, cameriere e camerieri, lavoratori a partita iva negli studi professionali, tranvieri. I loro stipendi, invariati da tempo, si aggirano in media intorno ai 1300 euro al mese.
Nel frattempo, la demografia di Milano dà segnali contraddittori. Perché, se è vero che dopo l’emorragia degli anni del Covid, in cui la città aveva perso circa 50 mila residenti in un biennio, altrettanto vero è che negli ultimi anni la curva dei residenti ha ricominciato a salire stabilizzandosi attorno al milione e quattrocentomila. Tuttavia, sempre nell’ultimo biennio, il saldo tra i nuovi iscritti all’anagrafe e quanti lasciano la città sembra nuovamente negativo, a segnalare, una nuova onda di allontanamento da monitorare.
Quel che sembra evidente, guardando i costi della vita dopo le ondate di inflazione degli ultimi anni, è che la città espelle i più deboli, mentre cresce la propensione degli investitori (anche privati) a trasformare gli immobili in fonte di reddito; secondo Crif/Nomisma, il 63 per cento dei locatori li percepisce come investimento, in molti casi a spese di chi cerca una casa per viverci. Del resto, a partire da Expo alle Olimpiadi in arrivo, tutto ha creato una narrazione di successo. E non si può negare che la città sia diventata anche molto più bella.
Ma, allo stesso tempo, si è alimentata quella dinamica performativa che produce valore per pochi rischiando di soddisfare interessi più privati che pubblici. Milano però non è solo vittima di una “crisi urbana”, soffre anche di un problema di rappresentanza. L’elettorato del centro storico – con redditi più alti e capitali culturali – vota molto di più della media cittadina: i dati sulle elezioni comunali 2021 parlano chiaro: solo il 47,7 per cento di affluenza, ma con punte ben superiori nei Municipi centrali. Di contro, le periferie mostrano un distacco crescente: bassissima affluenza e minore interesse. L’apatia diventa evidente: chi sta fuori dal centro percepisce la politica come distante, estranea. Risultato: le politiche urbane emergono sempre più orientate a soddisfare un elettorato centrale, benestante, mentre le periferie restano marginali. In una città vulnerabile, questa è una frattura politica grave quanto quella sociale o immobiliare. Perché il rischio è che il futuro della città, lo decidano sempre e solo i salotti.
Ed è altrettanto vero che, in questi anni, il cuore pensante e amministrativo di Milano si sia progressivamente sottratto dal compito più difficile ma necessario: restituire alla città un racconto comprensibile dei processi in atto. A mancare, di fatto, è stata l’occasione di creare, nella trasformazione della città, un grande progetto collettivo e democratico. Ma se si vuole ripartire, è da lì che si può ricominciare.
Il Laboratorio dell’Errore
Milano, come tutte le città interessate da fenomeni globalizzanti e capitalistici, ha la tendenza a considerare i fallimenti come rimossi. Ma non si dovrebbe temere di mostrare la propria fragilità. Forse è arrivato il tempo di dotarsi di uno spazio dove interrogarsi sui propri cortocircuiti. Un vero e proprio “Laboratorio dell’Errore” dove non si nasconda quel che è andato storto ma pubblicamente lo si guardi, lo si compari caso per caso e lo si analizzi con visione, coraggio e concretezza. Senza retoriche. A servire è uno spazio libero, permanente, di confronto, capace di autocritica. Pronto ad aggregare i dati prodotti dalle ricerche delle università italiane, dei centri culturali e degli Istituti di ricerca. Mettendoli a confronto. Per incentivare un processo condiviso tra amministratori, costruttori, realtà cooperative, politici, intellettuali, studenti, attivisti, portinai, scuole, lavoratori, lavoratrici, psicologi, adolescenti delle periferie, abitanti di diversa età e provenienza culturale sociale e geografica. Generando a ricaduta progetti concreti.
Uno spazio di sano conflitto, che superi i processi partecipativi calati dall’alto, dove le diversità siano risorsa per affiancare, ognuno nel proprio campo, questa Amministrazione Comunale, che ha deciso comunque di restare. Per provare ad andare oltre la lamentela e l’accusa talvolta mescolate all’attivismo militante.
Tante sarebbero le cose da suggerire, dalla costituzione di una commissione esterna e indipendente, capace di rimettere mano ai gangli inceppati della macchina urbanistica, sbloccando ciò che oggi rallenta la città — dai cantieri fermi alle case di chi ha investito i suoi risparmi — e restituendo metodo e visione a un sistema che rischia di implodere. Servirebbe pensare a politiche abitative strutturali, che non aggirino solo l’inflazione dei prezzi, ma reinvestano nel sociale abitativo. Sarebbe necessario un confronto con il sistema finanziario per capire come restituire valore, in progetti sociali, da quanto estratto in termini di profitto e di costruzione della città. Servirebbe interrogarsi su come arginare lo storytelling urbano che, come nel caso di Piazzale Loreto — annunciato, poi congelato — ha contribuito a gonfiare i costi dell’abitare. Lungo quella via Padova ancora popolare, delle ultime famiglie migranti e locali rimaste. Servirebbero politiche sperimentali, sugli affitti, capaci di dare maggiori incentivi nel lungo periodo ai proprietari di casa, ma con chiare regole sull’uso dell’immobile come investimento.
Avremmo bisogno di attivare laboratori civici territoriali per valorizzare le fragilità: zone multi-etniche, generazioni che rischiano l’esclusione, la povertà. Dovremmo interrogarci su come Milano possa tornare ad essere una città per chi ha meno, garantendo accesso a sport e cultura. Oggi, se sei povero, anche una piscina può essere inaccessibile. Servirebbe valorizzare quelle realtà periferiche, spesso strumentalizzate dal mercato immobiliare, che resistono, tra le poche a saper davvero ascoltare chi resta. E lo si dovrebbe fare mettendo finalmente in discussione le modalità così complicate con cui si è soliti finanziarle.
Servirebbe riconoscere la sofferenza dell’adolescenza di questa città, con progetti di ascolto, desiderio e formazione popolare che partano anche da chi abita la strada, per contrastare povertà educativa e malessere psicologico.
Salva Milano
Infine, Milano potrebbe essere sì un modello, ma se capace di attivare uno scambio continuo e di confronto sull’errore, con le altre città italiane che vivono le stesse complessità. Il richiamo all’assenza della politica nazionale può diventare così più forte, collettivo, costringendo a soluzioni che non siano un “Salva Milano” qualsiasi.
Ma questo è possibile solo se ognuno di si prende le proprie responsabilità, senza scaricarle sugli altri. Abitare, in fondo, non significa solo avere un tetto sopra la testa, o avere potere, ma significa anche sentirsi parte di un luogo, essere riconosciuti e contribuire attivamente ad una comunità inventando, se si può, spazi giusti per chi dovrà venire dopo di noi.
E per farlo dovremmo tutti mettere in discussione la nostra professione e la nostra professionalità, riconoscendo i nostri privilegi, i centri di potere, l’amichettismo. Chiedendoci perché facciamo quello che facciamo. Chiedendoci se quello che pensiamo giusto per noi, lo sia anche per chi non ha diritto di parola. Chiedendoci se non sia il caso di iniziare ad ascoltare quelle voci e, facendo un passo indietro, portarle ai tavoli che contano. Non pensando solo di rappresentarle per metterci a posto la coscienza.
Una città forte è quella che non teme la complessità. E oggi Milano ha l’occasione di inaugurare una nuova fase: meno fondata sulla mitologia del fare e più attenta ai conflitti e ai reali bisogni. In fondo, ogni crisi è anche un momento di verità. E Milano, che di crisi e rinascite ha fatto la propria storia, potrebbe ancora una volta sorprenderci.

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