Giustissima la decisione, dopo l’addio di Matthieu Blazy a dicembre dello scorso anno, di prendersi il tempo che serviva per tornare in passerella con il debutto di Louise Trotter.
Nel 1969, Eugen Fink, filosofo tedesco e allievo di Husserl – uno studioso che è impossibile derubricare come “fashion victim” – parlava della moda in quanto fenomeno sociale (il libro in questione si chiama Moda. Un gioco seduttivo, edito da Einaudi). Già all’epoca il dibattito tra chi la riteneva colpevole di eccessiva futilità e chi, invece, le riconosceva la dignità di arte e materia di studio, era acceso. Fink, sostanzialmente, si situava nel secondo schieramento: secondo lui, al netto delle stravaganze e degli eccessi, i vestiti erano uno strumento valido quanto «parole e azioni, gesti ed espressioni facciali: l’essere umano dimostra di avere gusto e cultura anche attraverso quegli oggetti culturali che indossa sul proprio corpo e tramite i quali quel corpo vivente manifesta se stesso».
Più di 50 anni dopo, in occasione della Milano fashion week dove vanno in scena le collezioni per la prossima primavera/estate 2026, la discussione è ancora aperta: al di là degli schieramenti, che non sono mai sembrati così polarizzati e incapaci di comunicare tra loro, ciò che è interessante chiedersi è cosa vogliamo oggi dagli abiti? Cosa ci spinge a consumarli sugli schermi dei pc, farci accapigliare sui social, come è successo per il debutto di Dario Vitale da Versace, e nel migliore dei casi, comprarli?
La moda come intrattenimento
Se dalla moda avessimo voluto solo dei “prodotti” dotati di una funzionalità, probabilmente il progetto di Gucci con Sabato De Sarno – che per due anni, cocciutamente, ha insistito nel suo proposito di creare bei vestiti, e poco altro – avrebbe funzionato. Demna, che ha debuttato in questa settimana come nuovo direttore creativo della maison, tramite un corto firmato Spike Jonze si situa esattamente dall’altro lato dello spettro. Nel film con protagonista Demi Moore, i vestiti sono eccentrici, eccessivi – come si potrebbe confare alla protagonista Barbara Gucci, erede di una casa di moda e pure “chairman” della California – ma strumentali a raccontare ed evocare un mondo. Tra l’altro, all’interno di una sceneggiatura distopica e sovraccarica di celebrity, i maxi abiti con stampa Flora e le pellicce leopardate quasi rimangono sullo sfondo. Il corto è stato anticipato, nelle 24 ore precedenti, da un lookbook titolato “La famiglia”, che mette insieme 37 fenotipi dell’italianità, con corredato guardaroba: ci sono “sciura”, “il cocco di mamma”, “la cattiva”, “la contessa”, e via discorrendo. Ogni look corrisponde a un’identità, e a ogni identità è ovviamente appaiata una borsa o una scarpa della maison fiorentina, fresca di rivisitazione: ritorna la Gucci Bamboo 1947 e il mocassino Horsebit – la cui versione con pelo fece risuonare i registratori di cassa all’esordio di Alessandro Michele – ma pure il logo della doppia G, che rinnega il quiet luxury e si impone con una certa arroganza più o meno ovunque.
L’intelligenza di Demna è non tanto nel rivoluzionare l’archivio di Gucci – la prima sfilata vera e propria sarà quella di marzo 2026 – ma crearvi intorno degli universi di riferimenti nei quali quegli abiti vivono, e far immaginare al consumatore finale di poter divenire protagonista di quella fantasia. La necessità di Gucci di registrare utili è lampante: i fatturati sono in calo ormai da più di due anni, e dalle fortune del brand dipende anche il futuro del conglomerato che lo possiede, Kering (Gucci è storicamente il brand che guadagna di più, tra tutti quelli del suo portfolio). Immaginare un mondo (seppur un mondo parallelo) nel quale quegli abiti hanno di nuovo un senso di esistere potrebbe essere un viatico a una rinnovata curiosità nei confronti del brand, alla sua desiderabilità, e in ultima istanza, al suo acquisto: in effetti nel weekend si è già registrato un importante via vai nella boutique milanese (una delle 10 al mondo nella quale è già disponibile la collezione). Se però questa curiosità si tradurrà in un successo commerciale, ce lo dirà solo il domani.
Che la moda sia divenuta una forma di intrattenimento anche cinematografico non è certo una novità: a dimostrarlo, casomai servisse una riprova, è bastata la sfilata di Dolce&Gabbana. Il momento della collezione che ha riscosso più successo sui social non ha tanto a che fare con gli abiti, i pigiami preziosi, le camicie da camera o la lingerie in pizzo con richiami all’estetica della Malena di Tornatore (una iconografia legata a filo doppio al brand) ma con la presenza di Meryl Streep e Stanley Tucci, che hanno ripreso i loro ruoli di Miranda e Nigel de Il Diavolo veste Prada, di cui si sta girando il secondo capitolo. Il loro arrivo alla sfilata, con notevole ritardo, e il loro posizionamento strategico (erano seduti esattamente di fronte ad Anna Wintour, direttrice alla quale la figura di Meryl Streep è ispirata) ha mandato in solluchero gli utenti dei social, intasando i feed di chiunque navighi, anche in maniera marginale, tra le notizie della moda.
L’ultimo Armani di Giorgio Armani
La quota massima delle celebrity in presenza si è però raggiunta alla sfilata di Giorgio Armani, l’ultima pensata dallo stilista scomparso questo mese, tenutasi all’interno della Pinacoteca di Brera, che, proprio da questa settimana, ospita la sua prima mostra di moda, dedicata ai cinquant’anni del brand, dal titolo Giorgio Armani: Milano, per amore. Cate Blanchett, Richard Gere – che Armani vestì in American Gigolo – Lauren Hutton, Spike Lee, Glenn Close e Samuel L. Jackson tra gli altri, erano presenti per rendere omaggio al creatore che ha legato in maniera inestricabile il suo successo oltreoceano a una lunga lista di titoli passati alla storia della cinematografia, di cui ha curato i costumi (tra gli altri ci sono stati Quei bravi ragazzi, Gli Intoccabili e The Wolf of Wall Street).
Una sfilata che il creatore aveva programmato sin nei minimi dettagli, e che si è trasformata in un tributo (assai morigerato, senza sentimentalismi eccessivi, come sarebbe piaciuto a lui). I 127 look sono un “best of” della sua carriera, con una concentrazione di completi, quelli che effettivamente hanno cambiato la storia del costume e il modo nel quale le donne si sono immaginate nella loro dimensione professionale e quotidiana. Sotto le note di Ludovico Einaudi, che suona il pianoforte in un cortile interno illuminato dalle luci delle candele, sfilano così una pletora di due pezzi in lino ikat nella scala del greige, e giacche avvitate. I vestiti si tingono dei colori della sua isola di riferimento, Pantelleria, e a indossarli sono le donne iscritte nel pantheon della femminilità Armaniana: Nadège, la modella degli Anni ottanta Gina Di Bernardo e pure Agnese Zogla, la donna che per 16 anni ha lavorato esclusivamente per lui. In questa occasione è toccato a lei, ancora, l’onere e l’onore di chiudere la sfilata, con un abito blu notte su cui si staglia in chiaroscuro il volto dello stilista.
Re-immaginare
A controbilanciare questa atmosfera comprensibilmente sobria, nella settimana della moda milanese, ci hanno pensato brand come Moschino, Etro e N°21, che per motivi diversi sembrano godere di una rinnovata vitalità: da Etro, Marco De Vincenzo ha deciso finalmente di abbracciare la molteplicità chiassosa del brand, una identità che affonda le radici nel folklore – e per questo, non ci poteva essere artista più adatta di Carola Moccia, alias La Niña, a dare voce ai sentimenti che sembrano animare i vestiti. I biker di pelle hanno le frange borchiate, sui blouson si accoppiano intarsi multicolor, sui broccati fioriscono motivi pittorici, le frange di perline si adagiano sulle stampe. Una collezione chiamata Flux, e che però sembra più che un quieto fluire un’esondazione di personalità, incurante di chi crede che ci sia un solo modello estetico (il quiet luxury) al quale aderire.
Parimenti, Alessandro Dell’Acqua, direttore creativo di N°21, ha lavorato su canoni massimalisti, sugli ossimori tra la rigidità del plissé delle gonne tradotte però in un tessuto di duchesse, sugli inganni tessili dell’anorak che si traveste da cappa, e si costruisce sul lino, sulle t-shirt con bolli che sono in realtà buchi creati su una superficie di paillettes. Sembra che, in fondo al tunnel della paura, dell’incertezza di questi tempi bui, con un mercato instabile, il designer napoletano abbia deciso che non è più necessario rifugiarsi in un passato mitizzato, ma è più urgente abbracciare la complessità del futuro «Mi è venuta voglia di trasformare tutte le forme classiche che hanno caratterizzato per molti decenni la moda femminile» ha spiegato lo stesso Dell’Acqua. «Così, per ottenere questa collezione ho deciso di annullare ogni sintomo di nostalgia e trasformarlo in un racconto corale di esperienze di mode e di design».
Re-immaginare, infine, è anche il diktat di Adrian Appiolaza da Moschino: ispirandosi all’arte povera, il movimento artistico degli anni Sessanta che sublimava materiali di scarto in polemica con il sistema capitalista, il designer argentino manda in passerella gonne da sera a corolla in crinolina, maglie lavorate in rafia tecnica riciclata dalla plastica, abiti stampati come se fossero giornali sui quali però appaiono solo buone notizie. Ed è in questo atto di fede verso il futuro la cifra di Appiolaza, convinto come possono solo gli incrollabili ottimisti che si possa ancora, nonostante tutto, ritrovare lo stupore, a costo di cercarlo disperatamente nell’ordinario, anche laddove c’è ben poco, anzi niente, per cui gioire (almeno a leggere i giornali, quelli veri). Ed è proprio la t-shirt con la scritta “Niente” pensata originariamente da Franco Moschino per la primavera/estate 1992 che torna in passerella per essere poi messa all’asta su Ebay all’interno del progetto Ebay Endless Runway, nato per celebrare l’idea di moda circolare. I proventi dell’asta saranno destinati al Camera Moda Fashion Trust, l’ente che si occupa della promozione dei giovani talenti.
Il nuovo baricentro di Prada
Un nuovo baricentro che possa reggere il peso dei tempi moderni lo cerca anche Prada, con una collezione firmata dal duo Miuccia Prada – Raf Simons. Una decostruzione del guardaroba che serve, idealmente, a viaggiare leggeri, pronti forse a doversi adattare a tempi erratici, che appaiono privi di un qualunque equilibrio anche solo momentaneo. E così il vestito da aperitivo in giallo acceso si indossa sotto il parka – capo principe nel vocabolario stilistico di Simons – gli short flosci in rosa pesca si abbinano ai guanti in satin lunghi, come se si fosse pronti ad andare a teatro, i blazer in seriosi grigi sono il contrappunto di gonne a pieghe piatte sul cui lato sbocciano infiorescenze di tessuti contrapposti, sete rosa confetto a balze. Non è chiaro su quale donna sia pensato il reggiseno minimalista, svuotato da qualunque imbottitura, se arriverà effettivamente nei negozi o se si adagerà soltanto sul corpo delle celebrities, sui red carpet dove ormai la moda vive, preferendoli alla vita vera, ma al duo non manca la voglia di immaginare delle alternative all’oggi, e con lo status ormai raggiunto negli anni e la conseguente idolatria di stampa e clientela affezionata (e dunque acritica) è possibile – ma pure necessario – concedersi il lusso di rischiare, accordarsi il brivido di una collezione che più che un diktat assoluto è un punto interrogativo.
Jil Sander più che mai
È invece una dichiarazione precisa, cesellata con un labor limae metodico, che sfiora l’ossessione, quella di Simone Bellotti al debutto da Jil Sander. Il designer arrivato nel brand nell’orbita di OTB da Bally, ha scelto di ripartire da dove tutto era iniziato – cioè nella sede originale di Jil Sander, in Piazza Cordusio, con vista privilegiata sul Castello Sforzesco – per mostrare agli astanti la sua idea di “minimalismo alla tedesca”, considerato che la fondatrice si è guadagnata negli anni il titolo di “Queen of Less”. Certo, c’è il dovuto omaggio agli avi, tramite il recupero di Guinevere van Seenus, volto di Jil Sander negli anni novanta, che apre la sfilata; ci sono i maglioni strizzati da indossare come top sopra altri maglioni, più morbidi; ci sono i cappotti in pelle dai tagli chirurgici, con le abbottonature alte; ci sono i toni zuccherosi che contrastano la severità del tailoring. Insomma, c’è tutto quanto ha reso Jil Sander l’epitome di ciò che voleva dire, trent’anni fa, vestirsi senza tenere in conto lo sguardo maschile, e per questo percepirsi più potenti.
E però c’è anche Bellotti, portatore sano di una molteplicità contraddittoria e affascinante, che si era già vista nel suo precedente impiego. Le gonne in pelle a matita sono tagliate al centro, come se un Lucio Fontana redivivo fosse intervenuto personalmente; gli abiti rigorosi da educanda in un collegio svizzero hanno degli oblò sul petto, lasciando la lingerie a vista; i cappotti disegnano volumi inesistenti, che non trasformano però mai il corpo di chi li indossa in una caricatura dadaista; i top hanno scolli a ypsilon, geometrici e insieme rivelatori, così come le cinture dei pantaloni e delle gonne, che sembrano sospese, a scoprire porzioni minimali di epidermide. Un gusto sottile per il gioco che Bellotti ha preso in eredità da Alessandro Michele, con cui ha lavorato per anni da Gucci, affinandolo poi a modo suo, educandolo alla disciplina, concetto sartoriale carissimo a Jil Sander. Un debutto che ha convinto la stampa, insieme a quello di Vitale da Versace e di Louise Trotter da Bottega Veneta : restano da convincere gli acquirenti, perché immaginarsi un futuro (diverso, possibilmente migliore, perché peggiore è difficile) deve essere uno sforzo collettivo. Milano ha dimostrato di avere dalla sua il coraggio, a chi è dall’altra parte tocca l’incoscienza di imparare (di nuovo) a giocare con i vestiti, e in fondo, anche con se stessi. Come avrebbe voluto Fink.
Nell’immagine in evidenza: Bottega Veneta SS26, Versace SS26, Prada SS26, Fendi SS26