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Infradito e sciacalli innamorati: l’arte di Meriem Bennani

La mostra intitolata For My Best Family, prodotta dalla Fondazione Prada, investiga i rapporti umani attraverso una grande ensemble di flip-flop e un film dove c’è tutto. Tranne gli esseri umani.

di Riccardo Conti

Secondo la società indiana Grand View Research, il mercato globale delle flip-flop, valutato nel 2022 a oltre 22 miliardi di dollari, continuerà a crescere con una stima del 3,8 per cento annuo tra il 2023 e il 2030. Alla base di questa domanda in tutto il mondo ci sono vari fattori: il basso prezzo del prodotto, la sua praticità e facilità di trasporto in valigia e anche il loro lento ed inesorabile farsi strada sulle passarelle dei brand di lusso. Insomma; le flip-flop sembrano l’elemento che più di ogni altro ha resistito alla tanto decantata fine dello street style. Ci sono altri due elementi apparentemente distinti ma intrinsecamente legati: il progressivo imporsi di outfit balneari — non c’è esperienza di transito in un hub del mondo che non sia accompagnata dallo sciabattare di masse di viaggiatori intenti a trascinare giganteschi trolley, complice l’aumento delle temperature globali — e, dall’altra parte, l’impatto senza precedenti di plastiche e microplastiche che si accompagna a questo aumento di domanda globale. È anche per tutti questi motivi, molto reali e molto presenti nel mondo così come ci appare ogni giorno, che l’arte di Meriem Bennani ancora una volta ha fatto centro riportandoci al qui e ora. For My Best Family, appena inaugurata nella sede milanese di Fondazione Prada, rappresenta ad oggi il suo progetto sicuramente più articolato, grazie anche alla fiducia della Fondazione Prada nel produrre un intero film e una mostra che si presenta in una forma apparentemente semplice. “Semplice” nella migliore delle accezioni possibili: nel Podium troviamo al piano terra la grande installazione cinetica e sonora, “Sole Crushing” composta appunto da centinaia di infradito, mentre al primo piano lo spazio è stato trasformato in una piccola sala cinematografica dove è possibile vedere il nuovo lungometraggio For Aicha.

Meriem Bennani, artista nata a Rabat nel 1988, con studi a Parigi e ora residente a New York, è tra le autrici più riconoscibili della sua generazione. Negli ultimi anni si è imposta come espressione di un mondo tanto dell’arte locale quanto globale, costruendo, soprattutto attraverso opere video, film e installazioni, un rapporto molto diretto e personale con questi linguaggi, dove i tic dei social, l’imprinting dei format tv e il vasto territorio dell’intrattenimento online sono stati punti di partenza per costruire il proprio repertorio estetico e analitico.

Nel 2020, con il video “2 Lizards” (in collaborazione con Orian Barki), inizialmente diffuso a episodi sull’account Instagram dell’artista e poi presentato in spazi istituzionali come il Whitney Museum, conquistò il pubblico dell’arte ma incuriosì anche una platea più allargata di spettatori. “2 Lizards” è il racconto surreale dell’esplorazione degli spazi urbani newyorkesi durante la pandemia di COVID-19, dal punto di vista di due lucertole in CGI antropomorfizzate, rifletteva, allora come oggi, la capacità dell’artista di utilizzare l’avatar-animale a fini narrativi, ricorrendo a ciò che il critico John Berger nel suo celebre saggio Why Look at Animals? (1980) definiva come «prima metafora dell’uomo». Già in precedenza, Bennani aveva utilizzato le animazioni digitali, mescolandole e sovrapponendole a riprese video amatoriali. In “Siham & Hafida” (2018), ad esempio, installazione realizzata inizialmente per la Stanley Picker Gallery della Kingston University di Londra, l’artista utilizzò una videocamera portatile, giustapponendo lo stile crudo della “TV-verità” con animazioni digitali bizzarre al fine di raccontare le complessità intergenerazionali delle forme culturali in evoluzione, incarnate da due popolari cantanti “chikha” marocchine di diverse età; un’opera non solo densa dal punto di vista visivo e formale, ma anche estremamente toccante nel raccontare il reale, superando il classico formato documentaristico.

Oltre a saper sfruttare al meglio la commistione di medium differenti, Bennani è anche un’autrice attenta a stabilire un rapporto di empatia con il suo pubblico: le sue narrazioni sono lontane da un certo tono algido e distaccato tipico dell’arte contemporanea e si muovono sfruttando vari registri emotivi, spesso creando momenti di coinvolgimento sul piano del divertimento e dello stupore. Bennani, per niente estranea a linguaggi come quello moda (insieme alla sorella Zahra ha fondato a Rabat il brand JNOUN), è ad esempio tra le autrici delle Women’s Tale di Miu Miu; il suo video per la collezione primavera/estate 2022 di Miu Miu è ricordato da molti come uno dei più spiritosi e sperimentali, come hanno ben raccontato Silvia Schirinzi e Clara Mazzoleni nella puntata del podcast Glamorama dedicata al progetto Tales & Tellers di Miu Miu durante l’ultimo Art Basel Paris.

Attraversando Sole Crushing, la grande installazione che occupa l’intero piano terra del Podium, non si può fare a meno di pensare a un sofisticato stage per una sfilata. Non ci sono modelle, non ci sono abiti, ma ci sono comode sedute dove assistere all’incredibile concerto di percussioni generato da centinaia di flip-flop di ogni foggia e colore. Accennavamo prima a quanto questo singolo accessorio si presti a infinite analisi sociali, economiche e culturali del nostro tempo (a questo proposito, uno dei saggi più interessanti in catalogo, The Slap Heard Around the World di Lars LaLa, aggiunge moltissimo al significato dell’operazione). Per Bennani, questo “balletto-sinfonia-rivolta” è prima di tutto una coreografia di oggetti che evoca insieme caos e ordine, richiamando lo spirito collettivo e di protesta tipico delle performance di Daqqa Marrakchia in Marocco, che si svolgono in spazi dedicati all’intrattenimento di massa. Pur presentandosi come un grande organismo meccanico, ciò che Sole Crushing evoca sembra anni luce distante dalla tradizione artistica europea delle ‘macchine celibi’. Anzi, come specificato nei testi che accompagnano la mostra, l’artista vuole evocare il “Duende”, ciò che il poeta Federico García Lorca descrisse come una “forza misteriosa” capace di infondere vita, la verità emotiva, l’essenza dell’arte.

Gran parte della produzione di Bennani è annoverabile tra quella che ormai potremmo definire online art, ma a differenza di tanti autori che in questo spazio virtuale stanno costruendo i loro immaginari, la sua poetica ha molto a che fare con il mondo reale, con la gioia di vivere e il desiderio di restituire un rapporto emotivo diretto con le cose (anche le più semplici).

For My Best Family prosegue al piano superiore, dove è stata ricreata una sala cinematografica nello stile di quella già presente in Fondazione, in cui i visitatori possono vedere per la prima volta il lungometraggio d’animazione For Aicha, frutto di due anni di lavorazione e ancora una volta realizzato a quattro mani con la documentarista israeliana Orian Barki. L’opera, sceneggiata da Ayla Mrabet e animata da John Michael Boling e Jason Coombs, con la voce dell’artista Yto Barrada, ci mostra un mondo tanto reale quanto immaginifico: ambientato tra New York, Rabat e Casablanca, For Aicha potrebbe sembrare un film qualsiasi che racconta il percorso di accettazione dell’identità sessuale della protagonista e del suo rapporto con la madre, ma se siamo soliti vedere storie simili interpretati da attori in carne e ossa, qui, come fu per 2 Lizards, ci sono umanoidi zoomorfi che interagiscono fra loro. Sciacalli, rane, salamandre, principalmente mammiferi e anfibi, sostituiscono completamente la presenza umana. Che questa sia una presa di posizione antispecista non è, in fondo, il vero punto del film, che mira invece a coinvolgere lo spettatore con un linguaggio e una narrazione del tutto familiari alle grandi produzioni cinematografiche e ai più recenti formati seriali, potenzialmente pronto a essere presentato su una delle tante piattaforme di streaming. For Aicha, che sappiamo essere ispirato da frammenti autobiografici di Meriem Bennani, sembra quasi servirsi di questo formato mainstream per affermare da un lato la normalità, e insieme l’apparente straordinarietà delle vicende e dei personaggi descritti. Come dichiarato dalla stessa Bennani, il film «è scaturito dai sentimenti che nutro per i miei genitori» e descrive il lavoro come un’indagine su «cosa si prova a essere umani». Abituati ormai a certi codici specifici del video all’interno del mondo dell’arte, For Aicha, con la sua struttura del tutto convenzionale, sembra suggerire una necessità di accorciare il più possibile le distanze con il suo pubblico nella restituzione del senso.

Attraversando quel mondo, tanto familiare quanto ‘estraneo’, viene in mente ciò che l’antropologo Arjun Appadurai scriveva nel saggio Modernity at Large. Cultural Dimensions of Globalization del 1996, dove spiegava quanto il lavoro dell’immaginazione sia parte costitutiva della soggettività contemporanea, quanto l’ideologia dell’industria della comunicazione di massa sia diventata senso comune, e quanto le fantasie indotte dai media siano diventate pratiche sociali. Migrazioni e complessi apparati mediali producono, oltre a evidenti forme di omologazione (e mimetismo), anche forme d’azione, d’ironia, rabbia, humour e resistenza. For My Best Family è tutto questo, ma è soprattutto il tentativo difficilissimo di raccontare cosa di umano ci è davvero rimasto al di là dei nostri simulacri digitali.

Immagini della mostra For My Best Family di Meriem Bennani, foto: Delfino Sisto Legnani–DSL StudioCourtesy Fondazione Prada