Nonostante i femminicidi, anche in Italia i contenuti legati alla manosfera sono sempre più numerosi e consumati. Tanto che è inevitabile chiedersi: com'è possibile che a un'ideologia così violenta venga ancora permesso di diffondersi?
Il femminicidio è ormai una tale piaga che non solo sappiamo già che un’altra donna morirà presto ma sappiamo già anche cosa se ne dirà dopo. È facilissimo prevedere quale Paolo Crepet verrà a farci la sessione terapeutica e quale Roberta Bruzzone ci spiegherà le minuzie della scena del crimine, chi dirà quale scemenza, chi quale banalità, a ognuno la sua parte in commedia, sempre la stessa, sempre peggio.
Gli intervalli tra ogni cosa e l’altra si stanno accorciando, anche l’intervallo tra l’ennesima morte violenta di una donna e il primo commento idiota di un uomo. Nella prescia con cui i maschi vecchi e nuovi si affrettano a precisare che “non tutti gli uomini”, c’è la prova della gravità del problema.
La zanzara
Il cadavere di Martina Carbonaro è stato ritrovato la mattina del 28 maggio in un rudere abbandonato nelle vicinanze di Afragola. Nel pomeriggio dello stesso giorno, l’ex fidanzato Alessio Tucci è stato arrestato e ha confessato di averla uccisa per quel motivo e in quel modo. La sera dello stesso giorno, Giuseppe Cruciani ha aperto la puntata della Zanzara dicendo che niente di quanto successo nelle ore precedenti aveva nulla a che fare con il femminicidio. «Non voleva perderla, aveva paura di perderla […] ma tanti uomini hanno paura di perdere la propria donna, c’è in più l’istinto omicida che ci può essere in qualsiasi persona, purtroppo. Dunque, cosa c’entra il femminicidio?».
È inutile qui ripetere i numeri, ripercorrere i casi di cronaca, ribadire che il femminicidio esiste e si manifesta anche in diciture come “la propria donna”. È da un pezzo che la verità non conta, che la realtà ha smesso di esistere, che la malafede e l’ignoranza e il cinismo hanno trionfato. Non basterà nessuna banca dati istituzionale (che comunque non esiste e che comunque dovrebbe esistere) a convincere i Cruciani di questo mondo.
In più, Cruciani parla al suo pubblico e tra il suo pubblico c’è Alessandro Impagnatiello, l’assassino di Giulia Tramontano, che a Cruciani personalmente ha spedito la sua fin qui unica lettera dal carcere affinché venisse letta agli ascoltatori del podcast più seguito d’Italia. C’è Alessandro Basciano, al quale Cruciani prestò il microfono per dire che «Sophie Codegoni mi ha mandato in galera». C’è Leonardo Caffo, che entrò in quegli studi fresco di condanna in primo grado per spiegare che in realtà la vittima era lui. C’è Stefano Valdegamberi, il senatore della Lega che accusò Elena Cecchettin di satanismo. Non c’è nessuna delle loro vittime, sicuramente perché l’invito a parlare è stato fatto ma rifiutato, certamente nell’assenza di queste donne non c’entra la volontà di mandare un messaggio politico né quella di saziare gli appetiti del proprio pubblico. Un pubblico in cui ci sono tutti gli uomini convinti di non essere “tutti gli uomini”, si capisce (chiamano e dicono che loro non sono così, mentre negano l’esistenza del femminicidio, della violenza di genere, del sessismo, del maschilismo, tutto al riparo dell’exclave della manosfera in Italia).
Il problema però è che Cruciani parla ai suoi, noi parliamo a nostra volta di lui e dei suoi: dalla sera del 28 maggio, per le 48-72 ore successive, si è parlato assai più di Giuseppe Cruciani che di Martina Carbonaro. Missione compiuta anche stavolta.
Su internet il lutto non esiste, il cordoglio nemmeno, ai morti non è concesso di riposare in pace né in eterno, ai vivi di approfittare almeno di questa facile occasione per dimostrarsi degni di vivere. Il cadavere di una ragazza viene ritrovato in un rudere abbandonato ad Afragola, un ragazzo viene arrestato e confessa di averla uccisa spaccandole la testa con una pietra dopo che lei aveva rifiutato di abbracciarlo, un altro ragazzo con un banchetto di panini gira una video con la madre della vittima per rivelare agli utenti di internet quale fosse l’hot dog preferito della figlia.
L’hot dog
Patrizio Chianese è parte della fauna di foodtok Italia, terra incognita spero per la maggior parte delle persone che stanno leggendo questo pezzo. Ha 28 anni, è di Afragola, ha un chiosco, quasi due milioni di follower su TikTok e una catchphrase, “Ti fidi di me?”. La dice a tutti i suoi clienti prima di iniziare a preparare l’intruglio, ed è stato anche il nome del locale napoletano che ha aperto in società con NewMartina (fallito in pochi mesi, per la sorpresa e il dispiacere di nessuno), chissà se l’ha detta anche alla madre di Martina Carbonaro prima di cominciare a registrare. Maionese, ketchup, cipolla croccante, paprika e formaggio, questo l’hot dog preferito di Martina, racconta Chianese. Accanto a lui Fiorenza Cossentino, la madre di una ragazzina uccisa. Nella caption, Chianese tagga Cossentino. Lei non guarda mai né lui né la videocamera.
Questo video adesso non esiste più, Chianese lo ha cancellato, gli avvocati di Cossentino hanno scatenato il putiferio, sui social non si è parlato d’altro per due giorni interi. Odia lui, odia lei, è colpa di lui, è colpa di lei, lui dice che lei gli ha chiesto il tag («Mi trovi come “la pantera di TikTok”»), lei dice che lui ha insistito per fare il video in memoria di una cliente affezionata, che si è trattato di un omaggio e non di pubblicità. A ognuno la sua scelta, odiare il peccato o il peccatore.
Di sicuro c’è da odiare il diavolo e la beffa più grande che abbia mai fatto: convincere il mondo che alla morte di una ragazza possa seguire il video di un hot dog, che l’uno possa essere conseguenza dell’altra, abituare i vivi al fatto che everything is content, pure i morti, pure il lutto, pure lo shock, pure il trauma, pure il femminicidio. Solo il diavolo può averci ingannato a tal punto da convincerci che sia normale il mondo in cui il Presidente della regione Campania Vincenzo De Luca discute di femminicidi con la content creator Valeria Angione.
Per colpa del diavolo, di Martina Carbonaro non sappiamo quasi niente, se non che aveva 14 anni, che è morta ammazzata dal suo ex fidanzato, che l’hanno ritrovata con la testa spaccata da una pietra e che le piaceva l’hot dog con maionese, ketchup, cipolla croccante, paprika e formaggio. Almeno, questo è quello che dice un altro maschio.
Il padre
Parlare di tutto, di qualsiasi cosa, pur di non parlare del problema. Perché parlare del problema ci costringerebbe ad ammettere che sì, i ragazzi non stanno bene ma i padri nemmeno, manco gli zii, i nonni figuriamoci, fino ad arrivare alla conclusione che probabilmente nessun maschio è stato bene davvero, mai. E che la soluzione non si trova perché non si cerca, non lo si è fatto finora, mai.
Stefano Addeo ha 65 anni, fa il professore in una scuola superiore, e dalla morte di Martina ha tratto l’ispirazione per un post Facebook in cui augurava la stessa sorte alla figlia di Giorgia Meloni, una bambina di sette anni. Le conseguenze sono state quelle che chiunque avrebbe previsto, chiunque tranne Addeo, che adesso è ricoverato all’ospedale dopo aver tentato il suicidio. Ha detto di non aver retto «a tutto l’accanimento mediatico che c’è stato nei miei confronti» e che comunque lui si prende la sua parte di colpa, l’altra spetta all’intelligenza artificiale che ha generato quel messaggio per lui. «Ho commesso un errore, ma non dovevo essere crocifisso in questo modo, mi hanno linciato», ha spiegato. Anche lui bravo ragazzo, anche lui un po’ vittima, boys will be boys, anche a 65 anni.
Il padre di Alessio Tucci, Domenico, ha detto che suo figlio non era ossessionato da Martina ma innamorato di lei. «Voleva sapere chi fosse il suo nuovo ragazzo, vederla chattare con un altro lo ha sconvolto. […] Anche mia moglie ha cercato di avvertire la madre di Martina, perché aveva scoperto che frequentava più di un ragazzo».
Quanti problemi ci sono da discutere, e soprattutto da risolvere, in queste frasi? Problemi che non si risolveranno con le fregnacce securitarie, con gli inasprimenti della pena, con le certezze della stessa, pugni duri e voci grosse, nonostante sia questa ormai la vulgata nell’immensa destra che è questo Paese: la pena arriva sempre dopo, quindi troppo tardi, che tutti gli assassini vengano sbattuti in galera conterà poco quando tutte le donne saranno morte lo stesso, se le donne capitano in una brutta situazione il massimo che possono sperare è che il loro assassino si trovi un avvocato scarso o un giudice severo (oppure che ci sia una farmacia, una chiesa nelle vicinanze in cui barricarsi, come suggerito dal ministro Nordio). E poi, quanto è più facile, consolante, accettabile pensare che il problema siano solo gli uomini che uccidono le donne e non anche quelli che le odiano. L’odio è difficile da perseguire per legge, quindi che in questo caso siano anche tutti gli uomini sai che importa, agli uomini.
Anche se, a pensarci, i problemi da discutere non sono poi tanti, sono tre. Il primo sono gli uomini che uccidono le donne. Il secondo sono gli uomini che parlano degli uomini che uccidono le donne. Il terzo siamo noi, che parliamo ormai più del secondo problema che del primo.