Cultura | Letteratura

Ripensare la libertà con Maggie Nelson

Intervista all'autrice di Gli Argonauti, tornata in libreria con una raccolta di saggi-memoir scritti nel corso di sei anni in cui si interroga su cosa significa essere davvero liberi.

di Sofia Mattioli

New York, foto di Spencer Platt/Getty Images

Come spesso accade nei libri di Maggie Nelson da Bluets (2009) che intercetta le sfumature emozionali e semantiche di una cromia al caso editoriale Gli Argonauti che è valso a Nelson un National Book Critics Circle Award, è l’esperienza, di narratrice, poetessa, accademica a sollevare interrogativi e diventare materia prima per ibridi tra critica, autobiografia, cultura pop, attualità. È il 1994, Maggie Nelson allora ventunenne, «sulle scale antincendio con una bottiglia di Jim Beam e una sigaretta affacciata sull’incrocio tossico, desolato, del Lower East Side» per la prima volta si interroga sul rapporto tra droghe e libertà. Tempo dopo nel campus dell’università dove tiene un corso, si ferma davanti a uno stand affollato di slogan e spille che inneggiano alla presunta libertà di vendere armi. Sono, questi, solo due dei tanti impulsi che muovono la scrittura, lunga, a più riprese e durata sei anni del nuovo libro di Nelson Sulla libertà. Un canto d’amore e di rinuncia, edito in Italia da Il Saggiatore. «Vi viene in mente una parola più svuotata, imprecisa, strumentalizzata?», scrive Nelson. Ripensare la libertà a partire dai limiti, i confini, le zone d’ombra. A Nelson non interessa tanto il momento salvifico e mitizzato della conquista della libertà, il sospiro di sollievo dopo l’oppressione, prende in prestito da Foucault l’espressione “pratiche di libertà”, ovvero l’idea secondo cui la libertà sia un processo accidentato e continuo, una sequenza di passi quotidiani di consapevolezza. Solo definendo i confini tra personale e collettivo, pulsione creativa e sistema asfittico dell’arte, indipendenza e dipendenza, si può non cadere in facili semplificazioni.

Se nel New York Times Bestseller The Argonauts (2015) la materia indagata tra testimonianza autoptica e critica era l’amore erotico, romantico, capace di intercettare la linguistica di Wittgenstein e la trasformazione dei corpi, ora lo sguardo inquadra quattro coni di luce: arte, droghe, sesso e clima. Nelson li chiama canti (“songs” nella versione originale), quasi ci fossero interpretazioni e sonorità differenti a ogni capitolo. Fino ad arrivare al più cupo, quello in cui la libertà come ossigeno sembra venire a mancare, è l’attimo in cui la consapevolezza della crisi climatica diventa fisica e, come sottolinea l’autrice, tratteggia scenari da distopia e lascia segni sulla pelle, come le vertigini e i disturbi legati alla sfera del corpo che hanno accompagnato Nelson per l’intera ricerca e scrittura del capitolo.

«Quando la crudeltà mi ha sfinito, mi sono rivolta direttamente alla libertà», scrivi. Perché? In che modo questo libro è legato al precedente The Art of Cruelty: A Reckoning uscito nel 2011?
Concentrarmi sulla crudeltà mi ha fatto capire i modi in cui agisce comprimendo lo spazio per muoversi, sia psicologicamente che fisicamente. Ci intrappola, ci fa sentire piccoli, umiliati, ci inchioda sul posto, ci lega al nostro dolore, induce la sensazione di non avere vie d’uscita. Lo spazio per muoversi – lo spazio perché le cose vadano diversamente – elimina questo aspetto della brutalità. Il modo in cui Foucault e Arendt scrivono di libertà, come gradi, come spazio, ha rafforzato, poi, in me questa idea. Volevo che il libro avesse un obiettivo più grande di The Art of Cruelty, tuttavia piuttosto che concentrarmi esclusivamente sull’arte, volevo affrontare temi più grandi e fluidi della cultura. Da qui, On Freedom.

Un altro tema cardine è il tempo, la pazienza e la cura insite nel processo creativo. Quanto è importante il tempo di attesa (in questo caso letterario)? In quanti anni hai scritto il libro?
La prima embrionale idea era del 2010, ho iniziato a fare ricerca nel 2014. Mi sono seduta alla scrivania, ho scritto le prime pagine nel 2016 e ho finito il libro nel 2020. Quindi, sì, un po’ di tempo. E un tempo molto turbolento, come lo sono stati gli anni del Trumpismo in America e della pandemia. Ho scritto altri libri molto più velocemente – certi libri, specialmente quelli che non richiedono molta ricerca o sono di natura autobiografica – possono scivolare via velocemente. Libri diversi richiedono cose diverse, hanno il loro tempo. La cura e il tempo che questo libro richiedeva erano importanti, perché stavo scrivendo su tante questioni “hot take” su cui non volevo avere un approccio frettoloso. Mi è servito prendere le distanze, riordinare i pensieri, cercare il tono giusto. Il libro parla anche molto del tempo e dell’importanza del tempo in relazione alla libertà: parla della libertà di vedere le cose in retrospettiva e di reinterpretarle, della libertà di leggere il nostro passato, presente o futuro in modo diverso, e delle forme di libertà che derivano dal lasciar andare la foga dell’attimo e di collocarci in un tempo storico, profondo.

Perché la decisione di indagare la libertà in relazione a quattro sfere: arte, droghe, sesso e clima?
Il sesso e l’arte sono due sfere di cui in passato ho scritto tanto. Per quanto riguarda le droghe sono stata a lungo interessata alla narrazione delle droghe nella letteratura e alla dipendenza. Personalmente ho sperimentato liberazione attraverso le sostanze e una liberazione maggiore attraverso la sobrietà, ho voluto rendere omaggio a tutto ciò. Per quanto riguarda il clima, è probabilmente il tema più rilevante oggi, sarebbe stato impossibile e stupido evitarlo. Per scrivere quel capitolo ho dovuto spingermi al di là degli argomenti che mi vengono naturali, e leggere, pensare e sentire “in modo ecologico”. È stato impegnativo perché sono sempre stata innamorata della cultura urbana. Come riporto nel libro, la frase di Frank O’Hara, «Non posso nemmeno godermi un filo d’erba se non so che c’è una metropolitana a portata di mano, o un negozio di dischi o qualche altro segno che la gente non non rimpianga completamente la vita», mi è stata a lungo cara; non faccio nemmeno giardinaggio. Eppure so anche so che questa disconnessione è parte integrante della logica che ci sta uccidendo, che ucciderà la possibilità di continuare a fare tutto ciò che amiamo, compresa la nostra vita intellettuale e artistica. Niente di tutto ciò esisterà senza un pianeta su cui vivere. Sapevo che avevo bisogno, sia come scrittrice che come essere umano, di spostare la mia lente. Ne è valsa la pena: scrivere sul clima mi ha cambiato. Infine, ho scelto questi quattro ambiti perché nessuno riguarda la “politica” in modo diretto, sentivo che c’erano abbastanza libri sulla libertà politica e che avevo qualcosa di diverso da offrire.

Eppure nel libro ci sono riferimenti al panorama socio-politico odierno. Quali richiami all’attualità hai inglobato nel processo di scrittura?
C’era un equilibrio a cui mi dovevo attenere, un equilibrio tra il far entrare nel testo le notizie martellanti del giorno e tenerle fuori abbastanza da poterne scrivere. Le notizie sul clima erano forse le più stabili e instabili allo stesso tempo: stabili perché purtroppo sapevamo già da tempo dove eravamo diretti- sappiamo anche oggi ciò che ci aspetta se non si procede verso la decarbonizzazione, ma nei sei anni in cui ho scritto, molti aspetti sono peggiorati. È stato caotico, vertiginoso e doloroso lavorare su quel capitolo sapendo che il tempo che non potevamo e non possiamo permetterci di perdere stava scivolando via mentre scrivevo.