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Un libro elenca le 100 cose che abbiamo perso per colpa di internet

Editor della New York Times Book Review, Pamela Paul ha pubblicato otto libri specializzandosi in quello che lei chiama «l’intersezione tra la cultura del consumo e la vita reale». In una lunga intervista al Guardian ha presentato il suo ultimogenito 100 Things We’ve Lost to the Internet, un lavoro che rispecchia le riflessioni dell’autrice su tutto ciò che abbiamo perso utilizzando la rete, tanto che dal 2017 Paul usa solo la tecnologia che le è strettamente necessaria: la scrittrice non è abbonata a nessun servizio di streaming e noleggia dvd, mentre i figli ascoltano la musica su lettori portatili di cd. Il ragionamento che sembra guidare Paul si basa sulla domanda «serve davvero?». 100 Things We’ve Lost to the Internet è un libro in punti, come fossero brevi saggi, anticipati da una vignetta, dai titoli come “solitudine”, “ignorare le persone”, “lasciare un messaggio” e “l’attenzione costante di un genitore”, e lo scopo della ricerca è secondo l’autrice quello di raccontare piccoli aneddoti della vita quotidiana nell’era di internet. Se dormire è diventato sempre più difficile, con il telefono, e di conseguenza un mondo, a portata di mano, nelle prime pagine Paul riflette anche su come ricordare i numeri a memoria non serva più, di come un tempo nei viaggi in solitaria con lo zaino in spalla bisognava trovare il coraggio di interagire con degli sconosciuti, di come oggi giorno i social media permettano a tutti di manifestare qualsiasi tipo di opinione.

Con «umorismo accattivante e un tocco leggero», come scrive il Guardian, Pamela Paul racconta come in vent’anni siano cambiate radicalmente le nostre abitudini, evidenziando i piccoli cambiamenti poco percepiti piuttosto che le grandi innovazioni. Come ad esempio l’uso della punteggiatura negli scambi epistolari via email o nei messaggi, emoticon e punti di vario tipo possono totalmente cambiare il senso di una frase, quindi bisogna sforzarsi di prevedere come verrà letta dal destinatario. L’editor del Nyt si interroga su come ci si spostava quando non avevamo il GPS: «Oh sì, avevamo quelle enormi mappe pieghevoli che non avresti mai potuto ripiegare correttamente», ironizza. Un altro punto interessante è legato alla noia: secondo l’autrice la noia avrebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo della personalità dei ragazzini, partendo dalla sua esperienza: «Ho passato così tanto tempo sul sedile posteriore dell’auto dei miei genitori annoiata a morte. Non c’era niente da fare. Poi il tuo cervello vaga e pensi alle cose», mentre ora, dice Paul, i ragazzini ascoltano la musica o dei podcast, giocano online o si scattano milioni di foto da postare sui social media.

Come avverte l’intervistatore, John Harris, il libro non è un lamento infinito, alcune voci sono ambivalenti: cercare vita morte e miracoli di qualcuno su Google o sui social prima di un appuntamento al buio potrebbe rubare un po’ di mistero, ma è sicuramente positivo, come usare il navigatore d’altronde, un po’ meno avventuroso ma sicuramente utile. Secondo l’autrice si basa tutto sulla consapevolezza della scelta, che secondo lei è meno oculata nell’era di internet: «Abbiamo la possibilità di dire: non voglio quel prodotto», dice Paul. È davvero necessario PayPal? Ci sono altri modi per acquistare dei prodotti se non su Amazon? Per Paul si tratta di una scelta. «Comprare o non comprare un paio di jeans o una nuova crema per la pelle: anche queste sono tutte opzioni. Eppure, per qualche ragione, con la tecnologia, dimentichiamo di avere noi il controllo».