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La ambient è la musica migliore per questi anni

Ci ha salvato durante il lockdown e poi si è persa nelle playlist mediocri, ma la musica "per rilassarsi" (quella bella) resta il sottofondo perfetto per questo periodo.

06 Febbraio 2023

Molto di quello che sta cambiando, nei nostri consumi e stili di vita, in questi primi anni Venti, può essere ricondotto a quei sei mesi di lockdown del 2020: più che un “vibe shift”, il lockdown è stato un acceleratore straordinario di processi già in atto sottotraccia da diverso tempo, che sono fioriti o esplosi. Non sarei riuscito a passare il lockdown – il primo, l’originale – con la calma, la compostezza e la pazienza che ho sperimentato, probabilmente, se non fosse stato (anche) per la musica ambient.

Nel trasformare lo sgomento iniziale in settimane tutto sommato meditative e rilassate è stato fondamentale il disco Music For Nine Postcards di Hiroshi Yoshimura. Si tratta di un disco del 1982 pionieristico, che percorre la strada tracciata da Erik Satie e Brian Eno, in cui i protagonisti sono un pianoforte Fender Rhodes e molto silenzio. Lo mettevo nello stereo quasi ogni notte, nel buio, mentre dalle finestre aperte entrava un caldo singolare per il mese di marzo e le luci di segnalazione dei grattacieli di Milano si accendevano a intermittenza sotto le grottesche bandiere italiane luminose. Non era una passione soltanto mia, naturalmente: il 2020 è stato un anno in cui la ambient si è diffusa a macchia d’olio, e il motivo l’ha descritto in modo esaustivo The Verge in un articolo chiamato “The ambient year”: «We were all bored at home, so why not listen to boring music?».

Il termine ambient viene coniato da Brian Eno nel 1978 con il disco Music For Airports, una pietra miliare del Novecento fatta di synth, silenzio, piano, voci astratte. Sono architetture musicali «da sentire, non da ascoltare», come disse Erik Satie, che per primo parlò di “furniture music” (musique d’ameublement) nel 1917. Più avanti, negli anni Ottanta, quel Yoshimura di cui sopra descrisse la sua arte come «environmental music». Per semplificare molto, quindi: si tratta di musica che impatta sui sensi dell’ascoltatore o ascoltatrice senza che questi ci debbano dedicare troppa concentrazione. Yoshimura concepì Music For Nine Postcards come musica da suonare nel Museo di arte contemporanea Hara, a Tokyo, un edificio modernista bianco e sinuoso, circondato da alberi e palme, costruito negli anni Trenta: quelle nove cartoline erano ispirate ad altrettanto finestre dell’edificio.

Per ogni moda che arriva c’è però anche un carrozzone di problemi: e nel caso della ambient il primo problema si chiama streaming. Sono anni che le piattaforme di streaming hanno distrutto la forma-album, sia a causa dell’opzione shuffle sia per la facilità con cui ognuno può creare playlist estrapolando canzoni dal contesto in cui sono state originariamente pensate. Negli ultimi tre anni è stato tutto un fiorire di playlist per rilassarsi, per meditare, per lavorare, per dormire, per fare mindfulness, fino alla grottesca “Music for plants” creata da Spotify in persona. In queste playlist si trova di tutto: migliaia di tracce mediocri costruite a tavolino per cavalcare l’onda dell’ambient tra cui, però, si nascondono inattese gemme tipo “Melancholia II” di Basinski, che oggi supera le undici milioni di riproduzioni perché qualcuno l’ha inserita in una playlist chiamata “Songs for Sleeping” lunga cinque ore. William Basinski, che è invece uno dei compositori sperimentali più famosi e talentuosi, ha detto: «È curioso, in un certo senso ironico, e triste».

Al netto delle playlist mediocri, però, la ambient sembra un genere perfetto per il contemporaneo (“ambient”, va da sé, è un termine impreciso e molto grande che utilizziamo per comodità, dentro cui distinguere poi ambient pop, ambient techno, space music, drone music, e così via), e i motivi stanno tutti nella “vibe shift” di cui scrivevo all’inizio: sembra essere la musica perfetta per accompagnarsi al bisogno di quiete che stiamo manifestando in numero sempre maggiore e sotto vari nomi sempre inglesi: il quiet quitting, la great resignation, la “grande disiscrizione” dalle piattaforme di streaming che potrebbe indicare l’inizio della fine per la moda del rincoglionimento da “Netflix and chill” e il bisogno di una pace più profonda e meno “spegni-il-cervello”.

Mi sembra che non sia casuale nemmeno la contemporaneità tra la diffusione della musica ambient e il picco del cosiddetto Rinascimento psichedelico. Le due cose vanno a braccetto nei loro effetti migliori: per esempio, assumere un acido ascoltando i Disintegration Loops di Basinski o il recente (e stupendo) Peel di KMRU è un passo decisivo nel creare il setting ideale per “viaggiare”. Ma anche in quelli deteriori: vedo una certa similitudine, e spero di poterla spiegare in modo accettabile, tra le playlist di ambient scadente spacciata per “musica per concentrarsi meglio” e il diffondersi, anche questo dannoso, della pratica del microdosing come strumento per essere più lucidi e produrre di più. Mi sembra comune, nei due casi, la distorsione operata dal capitalismo su un’esperienza – musicale o spirituale – che dovrebbe avere a che fare con una stimolazione sensoriale. L’esperienza viene quindi spogliata di ogni valore interiore o artistico, e rivenduta come rimedio (“rilassati!” o “concentrati”) a un problema endemico del capitalismo stesso (l’iper-performatività). Ad ogni modo, non è detto che la ambient vada ascoltata soltanto come forma di meditazione a lume di candela in una casa buia e silenziosa. In fondo la definizione stessa di “furniture music” incoraggia a fruire della musica come si fruisce una buona architettura: qualcosa in grado di migliorare le vite o le giornate senza per questo richiedere una contemplazione estatica costante. È famosa la frase di Brian Eno, per cui la ambient deve essere «as ignorable as it is interesting».

Il giorno prima di scrivere questo articolo l’ho sperimentato: era una giornata che si avviava verso una serata triste e solitaria, e con grande sforzo di volontà ho colto l’occasione per fare una serie di cose prosaiche che rimandavo da giorni e che non volevo fare. Tra cui: andare a una svendita di tovaglie radical chic solitamente troppo costose, e al supermercato a comprare le più prosaiche tra tutte le cose che si possono comprare al supermercato, detersivi per la casa e carta igienica. Tutto questo l’ho fatto però ascoltando Cicada Waves, uno straordinario disco del 2021 di Ben Seretan. Il disco è composto da un pianoforte soltanto registrato in uno studio in mezzo agli Appalachi durante un’invasione di cicale. Durante le registrazioni, Seretan ha lasciato le finestre aperte per far entrare il suono delle cicale, dei grilli e della pioggia. Quell’invasione di cicale è un fenomeno naturale raro che, a quanto pare, si verifica una volta ogni 17 anni. Le cicale sono della specie Brood X, tra le più rumorose al mondo, e si ascoltano, nel disco, come se fossero dei loop naturali. Cicada Waves ha reso quelle attività così prosaiche non solo sopportabili, ma addirittura piacevoli, sciogliendo il cattivo umore e lo stress di quell’obbligo. E anche pedalando nel traffico di questa città infernale nell’ora di punta non ho litigato con nessun automobilista, nonostante gli automobilisti a Milano non facciano nessuno sforzo per non essere le peggiori persone sulla faccia della terra. Poi sono arrivato a casa, e ho continuato a sentire il disco durante l’esecuzione di cose meno prosaiche e più apparentemente profonde, o soltanto più da stronzo: godermi una bottiglia di vino francese, con le luci spente, guardando il muro. Come durante il lockdown. Funziona.

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