Cultura | Letteratura

Un’intervista con Joyce Carol Oates, la scrittrice che odia le interviste

L'abbiamo incontrata a Milano, dove ha ricevuto il premio Raymond Chandler per il noir: ci ha raccontato il suo nuovo romanzo, Macellaio, e ci ha spiegato perché a nessuno interessano più i romanzi scritti dai maschi bianchi.

di Arianna Giorgia Bonazzi

Avevo capito, da una sua intervista sul New York Times Magazine del 2023, che Joyce Carol Oates odia le interviste. Le definisce «una bolla nel sangue che si muove verso il cuore», momenti in cui si è costretti a riflettere in modo molto astratto sul proprio lavoro molto concreto. Certe domande, diceva, saltano fuori sono quando uno è intervistato, così cerco un indizio dall’intervistatore (del tipo: cosa vuol sentirsi dire?). Perciò, mentre sedevo con lei sul divanetto di un hotel milanese agghindato a Natale, tutto il tempo mi sentivo come un coagulo dentro le sue vene di ottantaseienne col jet lag.

Volevo andare via, ma avevo davanti a me Joyce Carol Oates, una donna che ha scritto 63 romanzi, 47 antologie di racconti, 16 raccolte di saggi e 9 di poesie, e che per farlo (si vede) ha dimenticato molte volte di mangiare; una donna che ha insegnato per oltre 50 anni scrittura creativa senza assentarsi un giorno. Non potevo scappare, se lei, a 86 anni, era volata fino qua a ritirare il premio Raymond Chandler per il noir; se lei, a quell’età, e senza nessun bisogno di farlo, promuoveva il suo sessantaquattresimo romanzo, Macellaio (La Nave di Teseo, traduzione di Chiara Spaziani), un romanzo gotico di 500 pagine su un pessimo ginecologo dell’Ottocento. Il suo editore, Elisabetta Sgarbi, durante la premiazione a teatro, ha detto che «il respiro profondo di Oates sfida tutte le leggi di buon senso editoriale», costringendo la casa editrice da anni a pubblicare anche due libri l’anno. L’augurio della Sgarbi, per Macellaio, è che lo leggano anche i maschi.

Quando inizia una storia come Macellaio è perché ha una visione? O perché vuole parlare di un tema?
Volevo mostrare un mondo dove un uomo famoso e potente interagisce con donne senza potere; volevo mostrare come l’uomo domina e predomina, e le donne sono ancillari e marginali, ma poi, alla fine del romanzo, acquistano forza, tanto che Bridget [la serva sordomuta e albina del dottore] diventa una poetessa. Ho avuto questa visione di un movimento da una situazione completamente disperata verso una situazione di speranza, di rivincita per le donne.

Il protagonista alterna atti e pensieri riprovevoli con strani slanci di umanità: è un uomo intrinsecamente cattivo o è vittima della cultura del suo tempo?
Non penso che il dottor Weir sia un uomo cattivo, penso che la società fosse così patriarcale che un uomo normale sarebbe stato sessista e avrebbe avuto idee discriminatorie delle donne. Weir non è un mostro: prova a fare buone cose, solo che non è per niente intelligente, i suoi esperimenti sono proprio ridicoli, ma ci sono stati tanti scienziati come lui, gli scienziati hanno fatto un sacco di esperimenti assurdi.

Nel romanzo, lei presenta la storia della medicina ginecologica come una storia di violenza maschile. Con questo libro, però, in realtà, voleva parlare del presente?
Certo, parlo dell’atteggiamento di superiorità maschile nella cultura patriarcale. Molti pensavano che fosse finito, ma non è così: le recenti elezioni americane sono state un regresso, un trionfo del patriarcato e della misoginia. E così purtroppo il romanzo è molto attuale. La sconfitta di Harris dimostra che l’America è piena di sessisti e razzisti, e la candidata democratica metteva insieme le due forme d’odio. È ancora controintuitiva, nell’inconscio collettivo, l’idea che un leader non sia un vecchio con la barba come dio.

A un certo punto, descrive in macabri dettagli la scena dell’asportazione del clitoride a una bellissima e giovanissima ragazza ignara (che poi si uccide). Cosa la guida nella scrittura di scene così? La scrupolosità del cronista o l’indignazione di una donna?
Beh, facevano di queste operazioni continuamente. E io volevo sapere esattamente come si svolgevano. Per questo, ho letto interamente online la biografia del dottor Sims [un medico realmente vissuto che operava al Lunatic Asylum di Trenton, a poche miglia da Princeton, dove vive e insegna Oates, ndr]. Ai tempi, l’utero era considerato la sede della follia, e per essere pazze bastava non voler pettinarsi, andare a messa o sposarsi. Le isterectomie erano molto comuni. Secondo i documenti, il medico asportò a una donna trenta pezzi di organi alla volta, convinto che la sua follia migliorasse, finché la paziente morì, e la cosa fu passata come incidente.

Il dottor Weir osa sperimentare in modo disumano sui corpi solo quando accede a cavie umane di bassa estrazione sociale. Il libro parla più di condizione femminile o più di classe sociale?
Naturalmente di tutte e due le cose. Le donne nere non avevano diritti, erano anche loro cavie per esperimenti. Lo stesso valeva per le ragazze irlandesi. Arrivavano con un contratto di schiavitù che durava fintanto che il viaggio fosse stato ripagato. Vedi, in tutta la letteratura noir, per quanto misogina, razzista e puritana, c’è un aspetto morale che contrappone le classi sociali più basse a quelle privilegiate.

In passato le hanno detto che c’è qualcosa di violento nel suo mettere tanta violenza nei libri. Ma lei nega: dice che non c’è connessione tra quel che si scrive e sé stessi.
Beh, ovviamente qualche connessione c’è. Ma il punto è: gli uomini hanno sempre scritto di violenza, guerra, crimine: non fanno altro. La maggior parte degli scrittori di noir è un maschio, ma non c’è alcuna ragione per cui una donna non possa scrivere delle stesse cose. Oggi siamo istruite, e non lo eravamo ugualmente vent’anni fa. Tu sei una reporter, una donna. Una volta erano tutti maschi. Ora le donne sono ovunque. È incredibile se pensiamo all’inferiorità in cui versavano fino a un passato recente. E poi, la violenza mi interessa perché pervade la società americana. Ogni minuto, c’è uno stupro. La prima causa di morte delle donne incinte viene dagli uomini con cui vivono.

Insegna scrittura creativa da più di 50 anni. Nel trailer della tua masterclass online dice: «Se tu che ascolti pensi di essere uno scrittore, probabilmente lo sei». Non è una frase pericolosa in un mondo in cui tutti si credono tutti scrittori?
Beh, non ci sarebbe niente di male in questo. Se tutti fanno gli acquarelli o suonano il violino, è una cosa buona, no? La creatività è una cosa buona.

Più si è meglio è? Anche a scrivere?
È un’idea del patriarcato che gli uomini abbiano l’arte e le donne i mestieri. C’è l’arte, e poi c’è l’artigianato: la maglieria, il punto croce, la trapuntatura; molte donne hanno cucito trapunte splendide, e non hanno ricevuto l’attenzione meritata. Io vengo da una famiglia dove mia madre e mia nonna erano sarte, facevano vestiti meravigliosi. Non vedo niente di male nel fatto che tutti provino a scrivere il proprio libro. La gente inizia a scrivere un libro e scopre quanto è dura. E la maggior parte di loro rinuncia. La gente fa corsi di scrittura per imparare a leggere: io insegno principalmente a leggere, e loro capiscono quanto è difficile scrivere qualcosa di originale, e magari rinunciano, ma intanto imparano tantissimo.

Oggi, nelle scuole di scrittura, si dice che il viaggio dell’eroe è superato. Ma come si fa ad aiutare gli studenti a metter su una trama decente, senza passare per la scrittura in tre atti, il conflitto e tutte quelle teorie che si sono rivelate frutto del pensiero maschile?
Io non credo di dover dire agli studenti di cosa scrivere. La maggior parte delle persone arriva con una chiara idea in testa. I miei studenti hanno tante cose da raccontare, molti sono figli e figlie di immigrati negli Stati Uniti, hanno storie molto interessanti, e non c’è bisogno di inventare una trama.

Quindi non si concentra sulla struttura quando insegna?
Non si può prendere una struttura dal nulla. Quel che serve è una storia, dei personaggi. Anzi spesso si comincia dai personaggi, personaggi che ci interessano, di cui vogliamo sapere di più.

Lei si è definita senza personalità: una specie di filtro attraverso cui scorrono le storie. Invece oggi, nel boom del memoir, la persona che c’è dietro la scrittura è inestricabile dall’opera. Cosa pensa del caso Alice Munro?
Lei è un grande esempio di persona di cui nessuno sapeva niente, nemmeno la gente che la conosceva bene. Io non la conoscevo, ma Margaret Atwood è una sua grande amica ed era veramente sorpresa.

Quindi persona e scrittura non sono poi così separabili?
Io non penso in termini di persone. C’è la gente, e nessuno è come nessun altro. Tu per esempio, non sei come nessun altro, giusto?

In passato ha creato subbuglio dicendo che gli editori americani non vogliono nemmeno più leggere romanzi di maschi bianchi… In che direzione va la letteratura?
Gli editori pensano che i giovani maschi non comprino libri perché non leggono libri. Sono più interessati ai videogiochi, quindi non c’è un pubblico per giovani scrittori maschi. Ecco perché c’è poco interesse a pubblicarli. Non si pubblica un romanzo se non c’è un gruppo di lettori pronto a leggerlo. Mentre invece le donne, le donne leggono i libri. E leggono fiction.

Quindi sono le donne lettrici a guidare il mercato verso più donne scrittrici?
Assolutamente.

Lei ha scritto una valanga di libri. Una volta, ha detto che non è niente di che, è come preparare milioni di pasti. Ha detto anche che per scrivere due pagine è sufficiente non perdere tempo su X. Eppure lei sta un sacco su X.
Beh, vedi, io non ho famiglia. La maggior parte di persone che vive con qualcuno passa un sacco di tempo a parlare, stare coi figli, invece per me stare su X o Bluesky è prendermi una pausa dal lavoro. Non ho famiglia, mio marito è morto, è normale avere tanto tempo. Scrivere è una cosa che non si può fare senza soste. Occorrono interruzioni, occorre perdere tempo. Andare a fare camminate, stare coi gatti.

È rimasta vedova di due mariti. Il primo non ha mai letto niente di suo. L’ultimo leggeva tutto. Quale condotta consiglierebbe al compagno di una grande scrittrice?
Per quanto riguarda il primo, io non volevo che mi leggesse: volevo libertà. È una questione di scelta individuale, è nella relazione. Il mio primo marito, Ray, era un editor, perciò leggeva tutto il giorno, e non volevo dargli altra roba da leggere. Ma il mio secondo marito era uno scienziato, ed era veramente curioso di leggermi.

E magari, a differenza del primo, non aveva la tentazione di editarla?
Oh no, editarmi! Mi leggeva solo per piacere.

Rachel Aviv ha letto tutti i suoi diari – quattromila pagine scritte fitte – per rispondere alla domanda “Come fa J.C.O. a non stufarsi mai del suo cervello?” Ma la sua risposta qual è?
Che razza di domanda è? Tu ti stanchi della tua mente, ad esempio?

Io? Ma la mia mente non produce la sua enorme quantità di pensieri e idee e storie tutto il tempo…
Non si può chiedere a nessuno se si stanca della sua mente! Per esempio: tu ti stanchi di sognare ogni notte?

Ora capisco cosa intende. In effetti no. Forse è che i suoi pensieri somigliano molto a dei sogni…
Io mi focalizzo sul lavoro, anziché su me stessa.

È anni che il mondo annuncia il suo Nobel. Lei vorrebbe essere in qualche modo canonizzata?
Sai, io non mi faccio davvero coinvolgere da queste cose.

Forse è meglio lavorare fuori dal rumore, non pensarci affatto…
Beh, io non ci penso mai.

In copertina: foto di Rosdiana Ciaravolo via Getty Images