Cultura | Libri

I libri del mese

Cosa abbiamo letto a novembre in redazione.

di Studio

Lawrence Osborne, Java Road (Adelphi)
Traduzione di Mariagrazia Gini
Credo che Lawrence Osborne sia lo scrittore che invidio di più al mondo. Come racconta nelle interviste (una la potete leggere tra l’altro nel nuovo numero di Rivista Studio), è uno che ha avuto una vita abbastanza scombinata, una vita da corrispondente freelance e di critico gastronomico nel sud-est asiatico, spiantato, non esattamente di successo, per quanto vendesse i suoi pezzi a giornali prestigiosi. Questo fino ai 50 anni, quando il suo libro Bangkokun saggio narrativo sulla capitale thailandese, ha iniziato a suscitare interesse nell’editoria internazionale, anche grazie alla spinta della traduzione di Adelphi. Poi sono arrivati i primi romanzi. Poi è arrivato il cinema. E oggi abbiamo il Lawrence Osborne che conosciamo, quello dei noir esotici dalle atmosfere fumose e avvolgenti che fanno pensare di trovarsi di fronte a una versione contemporanea di Graham Greene o di Patricia Highsmith. Così è anche Java Road, il suo ultimo (breve) romanzo, uscito in inglese nel 2022 e ambientato a Hong Kong, la città-Stato che «sembrava al riparo dalle tempeste della storia», proprio durante le proteste contro il governo cinese del 2019-2020. E il cui protagonista è un corrispondente spiantato, semi-alcolizzato, che è la versione expat di un investigatore privato chandleriano. Se conosci i romanzi di Osborne, sai già a cosa vai a incontro, e nel suo caso, più che di noiosa ripetitività, si tratta per il lettore di una fuga rassicurante tra locali, alcol, ricche famiglie asiatiche, cene, intrighi. Ti aspetti quasi tutto, ma è meraviglioso lo stesso. E in Java Road è scritto con una prosa anche più scintillante del solito. (Cristiano de Majo)

Maggie Nelson, Bluets (Nottetempo)
Traduzione di Alessandra Castellazzi
Duecentoquaranta frammenti, di una o di venti righe. In questi frammenti scritti anni prima del suo più grande successo (Gli argonauti, 2015), Maggie Nelson parla di un colore, il blu, ma anche del misterioso sentimento che la lega a quel colore e di come questa fascinazione si collega alla fine della storia d’amore con una persona e alla sofferenza per la malattia di un’amica. Sinestesie, variazioni, metamorfosi. Il film di Andy Warhol del 1969 (Blue Movie, meglio conosciuto come Fuck), gli azzurri di Cézanne, la definizione dell’azzurro di Goethe («più che animare, rende inquieti»), l’acianoblepsia (incapacità di percepire l’azzurro). Ma anche strane confessioni (Devo ammettere che non tutti i blu mi esaltano, frammento 33) e strane domande (il mondo è più azzurro visto da occhi azzurri?, frammento 35). Oppure piccoli eventi quotidiani, come nel frammento 85: «Un pomeriggio del 2006 in una libreria di Los Angeles. Prendo in mano un libro intitolato The Deepest Blue. Il blu più profondo. Aspettandomi un saggio cromatico, mi vergogno quando leggo il sottotitolo: Come le donne affrontano e superano la depressione. Lo rimetto immediatamente sullo scaffale. Otto mesi dopo lo ordino on-line». O grandi verità 229: «Sto scrivendo con inchiostro blu, come per ricordarmi che tutte le parole, non solo alcune, sono scritte nell’acqua». E come aggiunge Alessandra Castellazzi, che l’ha magnificamente tradotto, nella sua introduzione, «blu in slang statunitense in passato alludeva all’ubriachezza. E l’alcol circola nascosto in queste pagine, “livellato dalla scrittura”, evocato dalle bottiglie di birra e di whisky Maker’s Mark. Le “cose blu” che costellano il libro di Maggie Nelson sono cose tristi, cose sconce, cose ebbre o spesso, molto semplicemente, cose, oggetti: cartoline, bracciali, pietre, fermagli, acquerelli blu». E se desiderate delle istruzioni per l’uso ancora più approfondite per questo piccolo prezioso libro, le trovate qui, nel bellissimo pezzo di Fabrizio Maria Spinelli. (Clara Mazzoleni)

Charlie Kaufman, Formichità (Einaudi)
Traduzione di Gaspare Bona
Quando ha iniziato a lavorare su Formichità, Charlie Kaufman si è imposto un solo obiettivo: scrivere un romanzo impossibile da trasformare in film. La storia di B. Rosenberger Rosenberg in effetti è difficile immaginarsela proiettata sul grande schermo, anche solo per il fatto che non è una storia vera e propria. Sì, Formichità è l’avventura di questo critico cinematografico, vecchio trombone, ominicchio inacidito, padre disconosciuto – la parte “produttiva” del suo tempo la passa a scrivere stroncature dei film girati dalla figlia sul suo irrilevante blog – che cerca di trovare il senso della vita facendo scoprire al mondo il capolavoro perduto di Ingo Cutbirth, un film in animazione stop motion lungo tre mesi al quale il regista lavora da 90 anni. Delle 736 pagine di Formichità, però, un centinaio al massimo saranno dedicate a questa avventura. Le altre 600 pagine sono esattamente quello che ci aspetta da un romanzo di Kaufman, sceneggiatore e regista: umorismo deprimente, scenette surreali (la mia preferita: quella in cui Rosenberger incontra un attempato Donald Trump nella lobby del Plaza di New York, in questa versione della città ribattezzato Mamma, ho perso l’aereo Plaza), metaironia sugli involontariamente comici abitanti del cinema americano. Mentre leggevo Formichità mi chiedevo a quale sceneggiatore potrebbe essere affidato un eventuale adattamento, e come avrebbe fatto questo sceneggiatore a trasporre i momenti più divertenti e surreali del libro: quello in cui Rosenberger mostra i primi sintomi della sua ossessione per Judd Apatow o quello in cui – in una sorta di parodia degli inserti di critica cinematografica che Tarantino o Ellis mettono nei loro romanzi – attacca un’infinita elucubrazione sulla scena “Stai parlando con me” della serie tv Taxi con protagonista Robert De Niro (si rimane lì a chiedersi: Rosenerberger è un incompetente, un rimbambito o abita in una parte del multiverso in cui davvero esiste una serie tv intitolata Taxi con protagonista De Niro). Ci ho pensato fino a che non ho finito di leggere l’ultima pagina di Formichità, al nome dello sceneggiatore che potrebbe trasformarlo in un film. E alla fine la risposta era una sola, scontata fin dall’inizio: Charlie Kaufman. (Francesco Gerardi)

Kiko Amat, Il segreto di Amador (Edizioni E/O)
Traduzione di Pino Cacucci

Inizio con il dire che sono sempre molto scettico quando leggo il nome di Irvine Welsh sulla quarta di copertina di un libro, così come sono scettico di chi lo ama troppo e degli scrittori (solitamente molto più numerosi delle scrittrici) che scrivono di certi particolari gruppi sociali o sottoculturali o giovanili – gli ultras o gli skinhead in questo caso. Poi non mi do tregua, perché se sono così scettico mi metto a cercare su internet la faccia di questi scrittori qui, per confermare i miei pregiudizi, e allora ci trovo sempre facce troppo convinte di loro stessi, del loro personaggio, o personaggi teatrali e vestiti troppo giovanilmente, e allora le cose peggiorano irrimediabilmente e il libro viene bocciato senza appello. Poteva andare così, con Il segreto di Amador di Kiko Amat, e invece eccomi qui a scriverne bene. Visto che ho parlato dei pregiudizi negativi, faccio spazio anche per quelli in un certo senso positivi: in Spagna esce per Anagrama, di cui di solito mi fido a occhi chiusi per l’eleganza della grafica oltre che per il catalogo. E poi, oltre a Irvine Welsh, c’è nella quarta un nome che invece non viene citato quasi mai, ed è il nome di un maestro tra i più sottovalutati della letteratura del Novecento: Anthony Burgess. Quindi questo Kiko Amat mi sono convinto ad aprirlo, e le pagine sono andate veloci come una partita allo stadio, appunto. Amat è bravo a fare una cosa molto difficile: descrivere bene la violenza, senza goderne troppo ma mettendoti comunque lo stomaco in subbuglio per lo schifo. Non solo Burgess lo sapeva fare, ma anche Bolaño, per citare un altro autore Anagrama, e Littell. La violenza che Amador, Cid e altri compagni mettono in pratica è quasi distopica, ti fa venire voglia di skippare le pagine, però ci rimani perché è messa in scena come in un “play-by-play”. Minuziosamente, gesto per gesto, colpo su colpo. Poi la lingua di Amat ci passa sopra ad addolcire il tutto con giustapposizioni dolci ed eleganti, come quando una rissa a pugni e calci viene interrotta da: «I suoi bulbi ti hanno ricordato quelli di un capriolo che era stato ferito dal tuo vecchio una volta che ti aveva portato a caccia con lui. Erano color miele, liquidi, la superficie della retina tremava come acqua smossa quando il tuo vecchio si era inginocchiato per finirlo con il coltello». C’è altro? Sì: neonazismo, omosessualità, una Barcellona periferica e cattiva finalmente raccontata fuori dalla lente deformata della gentrificazione che l’ha stravolta negli ultimi anni. (Davide Coppo)

Simone Pieranni, Tecnocina (add editore)
Spesso quando pensiamo alla Cina pensiamo al futuro, al Paese dove i quartieri cambiano alla velocità della luce e sorgono le città intelligenti, dove gli streamer si raccolgono sotto ai ponti (letteralmente) per le loro dirette su Douyin (come si chiama TikTok da quelle parti) e dove i contanti non esistono più ma esistono le app onnipresenti, e onnipotenti. In questa raccolta di saggi Simone Pieranni, uno dei massimi esperti di Cina in Italia (già firma del Manifesto, fondatore di China Files e oggi da Chora Media, dove firma il podcast Altri Orienti tra le altre cose), esplora proprio l’elemento tecnologico nelle sue infinite declinazioni nel Paese dal 1949 a oggi. Attraverso questa speciale lente investigativa, la storia della Repubblica popolare cinese si arricchisce di nuove complessità e disegna un’ulteriore linea di interpretazione che permette di comprendere la Cina di oggi. Dalla storia di Xia Peisu e Yang Liming, ingegnere elettronico lei e fisico lui, che si conoscono durante gli studi in Scozia per poi tornare a casa, alla prima fabbrica cinese sul suolo statunitense, la Haider in Carolina del Sud, passando per la corsa ai semiconduttori e la nascita delle ferrovie veloci, la storia della Cina sembra allora sì una spinta continua e perenne verso l’innovazione e il progresso tecnologico, ma è anche costellata di errori clamorosi e storie dimenticate, che Pieranni raccoglie per i suoi lettori. Lungi dall’essere “solo” la fabbrica del mondo, com’è stata lungamente etichettata, la storia dell’avanzamento tecnologico in Cina ci racconta perciò la nascita del gigante di oggi, con tutte le sue contraddizioni, idiosincrasie e idee sul futuro, che lì sembra già succedere. (Silvia Schirinzi)