"Helmut Lang. Séance De Travail 1986-2005" inaugura il 10 dicembre e durerà fino al 3 maggio 2026.
Quando ha lasciato Celine, nel 2024, la moda si è chiesta: andrà da Chanel? Quando sono partite le indiscrezioni sul futuro dell’azienda di Giorgio Armani, il toto nomi ha eletto lui come candidato principale. Talmente quel chiacchiericcio aveva sorpassato il livello di decibel consentito, sconfinando nel regno delle profezie auto-avveranti, che l’azienda ha dovuto smentire in forma ufficiale. La moda – e il mondo che le gira intorno, consumatori compresi – è ossessionata da Hedi Slimane, elusivo designer dai natali francesi, italiani e tunisini, ma poi anche losangelino per affinità elettive, ex direttore creativo di Saint Laurent, Celine e ancora prima, Dior Homme. Un’ossessione che solo in parte ha a che fare con la rilevanza – indiscutibile – che Slimane ha avuto nella storia della moda, quando, nel 1999 a capo della linea maschile di Saint Laurent, mandò in scena la collezione Black Tie, il volume illustrato del suo approccio stilistico: completi avvinghiati ai corpi efebici dei modelli, una sartorialità affilata, giacche in pelle, camicie lasciate aperte su petti scavati, maglie morbide con scollo all’americana che erano un’ode all’erotismo della fragilità maschile. In sottofondo, Catherine Deneuve sussurrava qualcosa, sulle note del vate della french house Alex Gopher.
Designer totale dall’approccio sinestetico
Lontano dal percorso classico del designer – ha studiato Storia dell’Arte all’École du Louvre e si immaginava una carriera nel giornalismo – Slimane ha definito i canoni estetici dei primi Anni 2000, nel bene (l’introduzione di una nuova silhouette che prendeva ispirazione a piene mani dal punk e dal grunge) e nel male (con la celebrazione di una magrezza assoluta, che poi si fece canone al quale adeguarsi per tutta la decade successiva). Nelle sue mani, quel guardaroba – che negli anni è rimasto assai simile, con alcune variazioni – non era solo un ammasso di vestiti uniti da un gusto comune, quanto l’adesione a uno stile di vita, costruito su una serie precisa di ossessioni, tra le quali la musica la faceva da padrone. Nel suo approccio sinestetico, in carriera Hedi Slimane ha ascoltato e fatto ascoltare molta musica alle sue sfilate, con colonne sonore realizzate dai gruppi come Phoenix, Adam & The Ants e Razor Light, e brani originali ad hoc per gli eventi (come i These new puritans che scrissero Navigate, Navigate, per l’omonima sfilata di Dior Homme della stagione autunno-inverno 2007-2008); ha creato look di scena per una serie di artisti ai quali si sentiva affine (Jack White, The Kills, The Libertines, i Daft Punk); ha realizzato copertine di album (The fame Monster di Lady Gaga e Alphabetical dei Phoenix); ha reso le sue icone musicali protagoniste delle sue campagne (Marilyn Manson, Courtney Love, Kim Gordon, Marianne Faithfull, solo per citarne alcuni); ha dato alle stampe libri fotografici incentrati sulla scena musicale londinese (London Birth of a Cult, edito nel 2005 da Stiedl con foto di Pete Doherty all’apice della sua consunzione indotta dall’abuso di droghe, ma pure dei Paddington).
Non tanto uno stilista, quanto un designer totale, Slimane ha fotografato – o a volte immaginato – i mondi nei quali quei vestiti potessero vivere. Universi semantici dai confini precisi ai quali ha fornito la musica, le immagini di campagna, da lui stesso prodotte, e a volte persino i profumi, che ha lanciato quando era direttore creativo di Celine, e apparente motivo, secondo gli addetti ai lavori, della sua dipartita da Saint Laurent, che i profumi e tutto il reparto dedicato al beauty li faceva (e li fa) produrre a L’Oréal. Ha inoltre lanciato un’altra tendenza lessicale tra i suoi colleghi: se Coco Chanel consigliava alle donne di guardarsi allo specchio prima di uscire, e togliersi un accessorio di troppo, quando Hedi Slimane entra nell’atelier delle maison di solito salta qualche nome proprio dalla targhetta all’ingresso. Ha tolto Yves a Saint Laurent (innescando un effetto domino per il quale sono stati cancellati i vari Salvatore e Christian da Ferragamo e Dior) e quando non c’erano nomi da cassare, è passato agli accenti (Céline è diventato Celine). Nessuno ha mai in maniera ufficiale spiegato la ragione dietro queste scelte, e gli appassionati sono stati lasciati alle loro supposizioni, anche se con tutta probabilità, le motivazioni non esistono, e la scelta è più guidata dal desiderio di sorprendere, per quanto, come le scelte drammaturgiche in Boris, le sue rimozioni lessicali appaiono “così, de botto, senza senso”.
Indie sleaze e pantaloni stretti (sempre)
Sacerdote sommo della coolness – anche presso la Gen Z, complice il revival recente dell’indie sleaze – se intorno alla sua figura si è creato quello che si può definire un culto assai dogmatico, è anche per via di quell’aura di “sintomatico mistero”. Hedi Slimane è nei pantaloni slim fit nei quali ci costringevamo ieri e alcuni più giovani si costringono oggi (di più a riguardo più avanti). È nel revival di quella estetica che ha contraddistinto la musica del passato (dai Franz Ferdinand agli Strokes) e gli epigoni del presente (The Dare, European Vampire). È nelle collezioni dei designer che ne hanno ereditato il ruolo e hanno faticato a staccarsi, per motivazioni diverse, da quella pesante eredità: sia Anthony Vaccarello da Saint Laurent che Michael Rider da Celine sono stati inizialmente selezionati proprio perché potevano garantire una continuità filologica al suo lavoro, che, va detto, ha spesso raddoppiato quando non triplicato il giro d’affari dei brand per i quali ha lavorato. Eppure, nonostante questa costante persistenza nell’immaginario collettivo, Hedi Slimane coltiva un riserbo religioso. Se è costume abbastanza comune tra i designer delle più grandi maison, concedersi pochissimo all’occhio della telecamera – coltivare il desiderio tramite l’inaccessibilità e l’assenza, secondo la lezione di Lenny Belardo in The Young Pope – Slimane ha trasformato questa strategia di comunicazione in una fede: avvistarlo nelle foto di qualche festa modaiola è quasi impossibile, anche perché lui alle feste modaiole non ci va mai. Piuttosto è dietro la macchina fotografica, a Londra o a Berlino, a scattare foto di gioventù bruciata o adolescenti dalle lunghe chiome che hanno ereditato i geni del rock’n roll dai genitori, come i figli di Bob Gillespie dei Primal Scream.
E nonostante il suo modus operandi abbia fatto le fortune di tutti i brand nei quali ha militato, Vanessa Friedman sul New York Times ha fatto notare di recente che questo successo economico si è accompagnato, ogni volta, a un appiattimento del lessico del brand, una critica che viene spesso mossa anche ad Alessandro Michele: «In passato quando i designer andavano a lavorare in una maison nota, almeno fingevano di interessarsi al preservare le fondamenta dell’estetica del brand. Da quando lui è arrivato sulla scena, è emerso uno schema tramite il quale i designer sono nominati direttori creativi delle maison, ma invece di aprire una conversazione con l’essenza di quel brand, sviluppandola nel tempo, lo rendono un riflesso di loro stessi fin tanto che sono lì. Quando vanno via, si ricomincia da zero».
Livello rancore: Hedi Slimane
A completare l’esegesi della sua mitologia, contribuiscono anche le debolezze che sembrano, forse, renderlo più vicino al resto del mondo. D’altronde, è dal tempo dell’Olimpo greco che delle divinità ci intrigano di più le scappatelle, i tradimenti, le sanguinose vendette, che le qualità ultraterrene, che non possediamo e delle quali di conseguenza non abbiamo contezza o interesse a dissezionare. Perché se Hedi Slimane ha una debolezza, è il rancore. A differenza dei suoi colleghi, che preferiscono coltivare anche sui social una certa posa da Sibille di chi parla e si espone pochissimo e in maniera enigmatica e sottile, anche di fronte alle critiche sulle loro collezioni, Slimane le canta a tutti, da sempre. Il suo rancorometro interiore si sposta facilmente, e ha trovato vittime predestinate, nel corso degli anni, nei giornalisti colpevoli di non aver favorevolmente recensito i suoi show (e quindi velocemente disinvitati), ma pure coi brand rei, secondo il suo dire, di appropriarsi del suo retaggio culturale ed estetico. Il 6 settembre in una story su Instagram ha invitato Celine, brand che ha lasciato nel 2024 a “voltare pagina”. «Sono convinto sin da quando sono andato via», ha scritto, «che Celine si reinventerà in maniera brillante, sia nelle sue campagne pubblicitarie che nella sua immagine come azienda, con una grammatica e in un universo fotografico distinto e autonomo, specifico di tale promettente nuovo capitolo. Questo, in uno spirito di indipendenza creativa e rinnovamento, privo di prestiti o riferimenti insistenti al mio stile fotografico, incluse le campagne pubblicitarie e i film per Celine, mi pare ovvio».
Una dichiarazione quasi pacata, rispetto a quella volta nella quale volarono parole grosse con Cathy Horyn, all’epoca fashion director del New York Times. Nel 2012, non invitata al suo show di debutto da Saint Laurent, la giornalista recensì comunque la sfilata, spiegando a cosa si doveva il bando. Secondo Horyn, Slimane era arrabbiato per un suo pezzo del 2004, nel quale aveva scritto sostanzialmente che «senza la sartorialità affilata di Raf Simons, e la sua attitudine allo street casting, non ci sarebbe stato Hedi Slimane, così come Raf Simons (in quel periodo divenuto direttore creativo di Dior, ndr) non sarebbe esistito senza Helmut Lang». La risposta di Slimane sgombrò il campo da qualunque dubbio. Con un tweet dove utilizzava il font del New York Times e una lunga lettera la accusò di essere una “bulla da cortile” e “una comica da stand-up”. Nella lettera non mancano riferimenti al suo stile personale («ho inoltre saputo che il suo senso dello stile è in profonda difficoltà»). Un messaggio che si conclude mettendo il carico da novanta sul bando già esistente: «non avrà mai un posto alle sfilate di Saint Laurent, ma forse potrebbe avere un 2×1 da Dior».
Gli Hedi boy e l’amore della Gen Z
Al netto di una certa suscettibilità, l’estetica di Slimane rimane anche oggi un punto di riferimento secondo la Gen Z. Se all’epoca del lancio della sua silhouette, Karl Lagerfeld ammise di essersi messo a dieta per cercare di entrare in quei pantaloni skinny, negli ultimi anni quanti si affannano a cercare – e pagare a caro prezzo – pezzi vintage dei suoi anni da Saint Laurent o Dior Homme su piattaforme come Grailed, si sono dati persino un nome: gli Hedi boy. Postura acciaccata dalla vita e dal rock’n roll, capaci di sopravvivere apparentemente nutrendosi solo di sigarette e ettolitri di birra, così come 15 anni fa faceva Pete Doherty, la creator Emma Winder li scova con una certa ironia per le strade delle metropoli, sostenendo che «Un ragazzo su tre a Londra ha un’alta probabilità di vivere una fase Hedi nel corso della sua vita». E gli Hedi boy hanno idee molto precise, millimetriche, rispetto a quali siano i pezzi che ti consentono di definirti come appartenente al gruppo: berretti Saint Laurent Paris successivi al 2013 (Hedi Slimane è tornato come direttore creativo della linea femminile e maschile di Saint Laurent nel 2012), chiodo in suede, jeans cerati.
Se è comprensibile che Slimane, per la sua evidente influenza nel mondo della moda, sia considerato una figura leggendaria dagli addetti ai lavori e da quanti hanno seguito il suo percorso, la sua rilevanza presso la Gen Z ha altri motivi. Slimane è un abile narratore, un Caronte che traghetta anime alla ricerca di certezze e riferimenti (in un mondo che manca di entrambi) verso un’Arcadia immaginifica, un club dove ritrovarsi con i propri simili, che si possono riconoscere proprio attraverso l’illusione delle reference perfetta. Più è precisa l’esecuzione, più alte sono le possibilità di successo, di ingresso in un mondo del quale Slimane bisbiglia le coordinate, postando sui social foto ai party londinesi che poi andranno a finire su qualche magazine anglosassone (ovviamente di culto) come The Face e Dazed, tramutandosi in reportage sulla scena underground. D’altronde, a 20 anni, quando – nella maggior parte dei casi – non si conosce ancora a pieno la complessità della propria identità, poter contare almeno sulla sicurezza di un guardaroba prestabilito, accettabile secondo i canoni del proprio gruppo sociale di riferimento o di quello del quale si aspira a far parte, può apparire una scelta prudente, quando non proprio furba. Anche se a volte significa travestirsi da qualcun altro.
L’ossessione per Slimane qui ha molto più a che fare con la necessità di appartenere a una contro-cultura, sentirsi vicini ad altri coetanei, in una società che invece ha reso le relazioni sociali per i giovani così complesse, sempre sotto controllo del grande occhio dei social, che fanno presto a definire qualunque espressione di entusiasmo o di speranza nel futuro come “cringe”. E certo, l’immaginario di Slimane, nato nel 1968 e aedo indiscutibile del rock’n roll, come certe app per il ritocco delle foto, fluidifica quella storia, che è ben più variegata, non priva di contrasti, di corpi non conformi e non bianchi, che nella sua narrazione invece mancano. E però intercetta perfettamente, oggi come ieri l’anemoia, ossia la nostalgia di un tempo mai vissuto, e per questo mitizzato. Un tempo nel quale, come negli Anni ’90, si poteva andare in un club ad ascoltare musica, un tempo nel quale era lecito entusiasmarsi per il domani, un tempo nel quale, come è successo a lui, a 27 anni si poteva diventare direttore creativo. Senza morire, e però trasformandosi comunque in una rockstar.
