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Harvard a pezzi

Dall'inizio della guerra tra Israele e Hamas, le università americane sono state teatri di scontri ideologici che ne hanno minato profondamente il prestigio. Tra queste, la più colpita è stata anche la più famosa nel mondo: Harvard.

di Studio

Le università americane sono diventate uno dei campi di battaglia in cui si combatte la guerra ideologica che divide il mondo dal 7 ottobre. Ne aveva scritto Anna Momigliano qui: dal giorno in cui 30 gruppi studenteschi di Harvard hanno firmato una lettera in cui si attribuiva a Israele tutta la responsabilità della strage perpetrata da Hamas, i campus americani si sono trasformati in teatri di uno scontro imprevisto e imprevedibile, luoghi di tensioni che i dirigenti delle università raramente (e malamente) sono riusciti a controllare. Nei due mesi trascorsi dall’inizio di questo nuovo conflitto in Medio Oriente, proprio Harvard è diventata – per fama, per prestigio – il simbolo degli imbarazzi e delle paure che caratterizzano la vita universitaria americana in questo momento. La questione alla fine è diventata di interesse nazionale e mercoledì 6 dicembre la presidente di Harvard Claudine Gay, prima afroamericana a ricoprire il ruolo nella centenaria storia dell’università, è stata chiamata a testimoniare davanti alla Camera dei Rappresentanti. L'”accusa” era grave: non aver preso provvedimenti sufficienti a evitare che le manifestazioni pro Palestina degli studenti diventassero vettori di antisemitismo e avere così esposto gli studenti ebrei a bullismo, molestie e violenze.

Ripercorrendo quanto accaduto negli ultimi mesi, Gay ha spiegato che si è trovata in difficoltà nel cercare un equilibrio tra la garanzia della libertà di espressione e la repressione delle manifestazioni di odio, e ha ammesso di non esserci sempre riuscita. Allo stesso tempo, però, ha ricordato di aver sempre condannato gli attacchi terroristici di Hamas e di aver garantito la sicurezza di tutti gli studenti all’interno dell’università. In particolare, ha fatto discutere la risposta di Gay a una domanda della parlamentare repubblicana Elise Stefanik: l’incitamento al genocidio degli ebrei costituisce una violazione del codice di condotta dell’università in fatto di molestie e bullismo? «Può esserlo, a seconda del contesto», la risposta di Gay. Una risposta che la presidente ha cercato di correggere il giorno stesso, subito dopo la fine dell’udienza parlamentare, con un comunicato stampa (goffo, tardivo, a detta di moltissimi) in cui si definivano «confuse» le persone indignate dalle sue parole, confuse perché non hanno capito che Harvard ha chiarissima la differenza tra «il diritto alla libertà d’espressione e l’indifferenza nei confronti delle violenze ai danni degli studenti ebrei». Nel comunicato Gay si scusava anche, consapevole che «le parole sono importanti» e che la sua risposta a Stefanik aveva causato «dolore e sofferenza» a tanti.

L’udienza parlamentare di Gay è stata il culmine di tensioni che ad Harvard crescono da tempo. Come hanno spiegato Jeremy W. Peters, Dana Goldstein e Rob Copeland sul New York Times, tra docenti e dirigenti dell’università sono in tanti a chiedere le sue dimissioni. Le critiche nei confronti di Gay, però, hanno portato anche a una risposta da parte di chi ritiene che quello che sta succedendo si possa definire solo in una maniera: «Pressioni politiche che nulla hanno a che vedere con la missione di libertà accademica che Harvard si è data», come si legge in una petizione/lettera di sostegno a Gay firmata da 500 dei 2300 dipendenti di Harvard. Il riferimento non è solo ai politici, locali e nazionali, del Partito repubblicano che, come scrive anche Nicholas Confessore sempre sul New York Times, stanno approfittando delle circostanze per lanciare un nuovo attacco nella loro storica battaglia politica contro le cosiddette università delle élite. Chi conosce il dietro le quinte di Harvard sa che i firmatari di quella petizione si rivolgevano anche e soprattutto ai donatori che contribuiscono all’economia universitaria. Una delle personalità che si sono espresse a favore delle dimissioni di Gay è stato infatti Bill Ackman, miliardario, proprietario di un importante hedge fund ed ex studente di Harvard. Pressioni alle quali Gay per il momento è riuscita a resistere, anche se, come spiega Louisa Moller per Cbs, il suo destino resta ancora incerto: da un lato una parte sempre più consistente dell'”universo Harvard” si sta schierando a sua difesa – in queste ore anche la Harvard Alumni Association ha chiesto di sostenerla «unanimously and unequivocally» – dall’altro l’Harvard Corporation, organo al quale spetta la decisione sul futuro della presidente, tace. Un comunicato stampa chiarificatore (Gay resta qui, Gay va via) era atteso nella giornata di lunedì 11 dicembre: al momento siamo ancora in attesa.

«Mentre tanti colleghi, compagni e amici stanno soffrendo e vivono con grande preoccupazione gli eventi a Israele e a Gaza, dobbiamo ricordare che Harvard è un’unica comunità, legata dalla passione per lo studio, la scoperta e la ricerca della verità in tutta la sua complessità», questa è parte della prima dichiarazione – firmata dalla rettrice e dai presidi di facoltà di Harvard – con cui il 9 ottobre l’università commentava gli attacchi di Hamas a Israele. Il giorno dopo, però, la presidente Gay si era sentita in dovere di condannare in maniera inequivocabile gli attacchi, che aveva definito «terroristici» e «disumani», facendo anche un’ulteriore precisazione: «Su questa come su altre questioni, gli studenti hanno certamente la libertà di esprimere la loro opinione, ma nessun gruppo studentesco – nemmeno 30 gruppi studenteschi – è portavoce dell’università».

I 30 gruppi studenteschi a cui faceva riferimento Gay, proprio qualche ora prima della pubblicazione di questa comunicazione, firmavano una dichiarazione congiunta in cui attribuivano a Israele le colpe della strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre, sostenendo che non si potesse ignorare il contesto storico del conflitto. La risposta era stata immediata. The Harvard Crimson riporta che il profilo Instagram del Palestine Support Committee, il comitato autore del testo poi firmato dagli altri gruppi studenteschi, aveva ripubblicato il contenuto della lettera, che Meta ha oscurato nel giro di qualche ora. Questa misura però non è stata sufficiente a fermarne la diffusione. Le prime critiche sono state quelle dei professori e di celebri ex studenti dell’università (ne avevamo parlato qui), seguite da quelle di diversi politici americani. Anche Harvard Hillel, il Jewish center dell’università ha risposto al comitato palestinese sostenendo che le affermazioni nella lettera non facevano altro che alimentare odio e antisemitismo.

Malgrado i tentativi di chiarimento – un rappresentante del comitato palestinese, per esempio, aveva sottolineato che le morti dei civili sono da condannare in qualsiasi circostanza – e il fatto che diversi gruppi si siano poi dissociati, le ripercussioni continuano anche a distanza di due mesi. Politico ha riportato che tante università americane, tra cui la Columbia University e la George Washington University, hanno sospeso dei gruppi di studenti che organizzavano manifestazioni non autorizzate, mentre online sono cominciate a circolare liste con i nomi degli studenti che avevano sottoscritto la dichiarazione del Palestine Support Committee di Harvard, complete di informazioni personali come curriculum, foto e profili social. Nelle settimane successive diversi dirigenti di grandi aziende proponevano che le università rendessero pubblici i nomi dei firmatari in modo che finissero in una sorta di “lista nera” che avrebbe influito negativamente sulla loro carriera. Dei politici in Florida avevano suggerito di togliere le borse di studio agli studenti che partecipavano alle manifestazioni considerate a supporto di Hamas, mentre alcuni Ceo annunciavano pubblicamente di voler interrompere le donazioni verso università dell’Ivy League che supportavano, in alcuni casi anche da decenni. La Wexner Foundation, di proprietà del miliardario Les Wexner che sosteneva economicamente Harvard da oltre 30 anni, ha dichiarato la partnership ormai «incompatibile» a causa dell’incapacità della dirigenza dell’università di prendere una posizione chiara e inequivocabile contro l’uccisione dei civili israeliani fin dal primo momento.

In una situazione di tale incertezza, restano pochissime sicurezze. Due, per la precisione. La prima è che dal 7 ottobre a oggi nei campus delle università americane si è registrato, come riporta PEN America, un preoccupante aumento degli episodi di islamofobia e di razzismo nei confronti degli studenti arabi o arabi-americani. La seconda è che dal 7 ottobre a oggi, come spiega una ricerca svolta dalla Anti-Defamation League, il 73 per cento degli studenti universitari ebrei negli Stati Uniti ha detto di essere stato vittima di antisemitismo.