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Guido Guidi e la bellezza delle cose da nulla

L'editore inglese Mack ha appena pubblicato Di sguincio, una raccolta diversa dalle precedenti, dedicate soprattutto al paesaggio: ne abbiamo parlato con il fotografo di 82 anni.

16 Marzo 2023

Sono cose da nulla, quelle che fotografa Guido Guidi. Facciate, negozi, macchine, persone tra la via Emilia e il Veneto. A volte sono angoli di case che stanno anche a Milano, a volte in Sardegna. Sono cose da nulla e sempre ai margini, alla periferia di un mondo o dove due mondi sfumano in qualcosa di indefinito. Se ci passi davanti, ma non hai gli occhi di Guido Guidi, è probabile che non te ne accorgeresti mai. Una cascina che sta andando in rovina, un muro con l’intonaco sbiadito, un marciapiede con l’erba primaverile che cresce incolta. Nel 1984 partecipa a Viaggio in Italia curato da Luigi Ghirri, il libro-manifesto sulla nuova fotografia di paesaggio italiana. Rispetto a Ghirri lui è meno simmetrico, più sghembo, anche se le acque in cui nuota, per così dire, sono le stesse dell’amico e collega emiliano.

Di recente l’editore inglese Mack sta pubblicando molti libri di Guidi, e nel 2023 è uscito Di sguincio, che è un libro diverso dagli altri dedicati soprattutto al paesaggio. Qui Guidi utilizza 35mm a mano libera, senza cavalletto, senza guardare nell’obiettivo, e le foto sembrano prese di nascosto. Sono più rumorose del solito, e sembrano quasi scattate oggi, con una compattina apposta per Instagram. Ma sono foto vecchie, degli anni Ottanta, e Guido d’altra parte Instagram non ce l’ha. È nato il primo giorno di gennaio del 1941, e vive ancora vicino a Cesena, come sempre.

Come funziona questo tuo lavoro di ricerca in archivio? Ogni tanto ci guardi e trovi qualcosa che non hai pubblicato, oppure sono quelli di Mack che ti hanno convinto a farlo?
Il mio archivio è molto disordinato. Tutte le volte che ci metto mano per curiosare, perché mi sono dimenticato alcune cose di quello che ho fatto, invece di riordinare aumenta il disordine. Il libro non mi ricordo nemmeno come sia nato, perché è pronto da quasi due anni, solo che col Covid Mack ha deciso di aspettare tempi migliori. Sicuramente c’è tutto un lavoro fatto in anni che si perdono nella mia infanzia fino agli anni Ottanta, quando ho avuto le mie prime committenze, che non è mai stato pubblicato.

Perché hai custodito così tante cose che non hai mai pubblicato?
Io ero molto meticoloso, insicuro, insicuro di me, insicuro delle fotografie che erano fuori dalla regola di quegli anni là, anche se piacevano a Ghirri. Non ero mai pronto.

Rispetto ai libri in grande formato, Per strada, o In Veneto, qui scatti foto, appunto “di sguincio”, sghembe. Che differenza vedi tra quei libri e questo, oltre al formato della macchina usata? A me sembra ci sia un diverso approccio al tempo.
Ma non è tanto il formato, è più la dimensione dello strumento che ti permette di fotografare alcune cose, ma non ti permette di fotografarne altre. Diceva Daniel Arasse, uno storico dell’arte, che si potrebbe rifare una storia della pittura in merito ai pennelli usati dal pittore. Per esempio Velazquez dipingeva con un pennello lungo mezzo metro, come uno spadaccino. Invece Turner dipingeva con un pennello lungo neanche una spanna, attaccato al dipinto, senza guardare mai l’insieme. Ecco, lo strumento non è solo un mezzo, ma è anche un qualcosa che ti impone una certa possibilità. Quale possibilità? Per esempio fotografie istantanee, fatte col flash senza guardare: quasi tutte le fotografie di questo libro sono fatte senza guardare. Matisse si faceva bendare dopo aver disegnato più volte lo stesso soggetto, e lo ridisegnava a occhi chiusi.

Parli spesso di pittura e letteratura, in scritti o interviste che ho letto in passato hai citato anche Proust o Del Giudice. Quanto la letteratura o altre forme creative o artistiche girano intorno alla tua fotografia?
La pittura mi ha formato, fin dal liceo ho fatto scuole che mi hanno aiutato in questa direzione. Per quanto riguarda la letteratura ho avuto un professore alle scuole medie che mi aveva preso in simpatia perché ero un bambino che veniva dalla campagna e mi faceva leggere Cechov, Gogol, Dostoevskij, in prima e seconda media. Voleva fare di me uno scrittore, e mi incitava a scrivere un romanzo. L’avevo iniziato, ma non l’ho mai continuato. È troppo lenta la scrittura.

Ti preoccupi mai dell’invecchiamento delle tue fotografie?
Ci pensavo anche mezz’ora fa, ma non so cosa farci. Ho un ambiente pessimo per la conservazione. Sono qui con la stufa accesa, e siccome sono freddoloso tengo la temperatura troppo alta. E d’estate non ho il condizionatore né lo voglio avere. Preferisco sopravvivere io alle mie fotografie.

E quindi che fai?
Sapendo che uno dei principali processi di invecchiamento delle stampe del negativo è l’ingiallimento e l’arrossimento – arrossiscono non so perché, forse per la vergogna – allora tempo fa stampavo con del cromatismo molto verde. Sperando che fra vent’anni la trasformazione le riportasse a uno stato ottimale. Ma questo era più un gioco concettuale. Però va bene così. Tutte le cose cambiano. Cimabue ci insegna: lui dipingeva con la biacca, che era bianca, e poi col tempo è diventata nera, come nella Crocifissione di Assisi.

In Di sguincio ci sono molti volti, ma c’è spazio anche per i cortili, per le tue amate facciate di case. Cosa comunicano a te le facciate?
Ma in realtà questo libro qui è il primo di una trilogia. Le case sono previste per il secondo volume. Ma saranno case prese da un’automobile, mentre guidavo la macchina tra Cesena e Venezia. Il titolo dovrebbe essere “Andata e ritorno”. Poi vorrei pubblicare in un altro volume solo facciate delle case. Non sono solo facciate di case, ma per una sorta di pareidolia potrebbero essere scambiate per dei volti, delle facce.

Sono sempre facciate di provincia?
Sì, di solito facciate di periferia urbana, non solo di provincia. Case isolate su lotto, oppure su podere, su campo.

Com’è cambiata la provincia che conosci in questi ultimi decenni? Riconosci ancora un posto che ha una dimensione di casa?
Sempre meno, perché le vecchie case vengono abbattute, o si lasciano cadere e ormai non ci sono più. Le case coloniche, l’architettura rurale, ce n’è sempre meno. Le case geometrili che erano pure affascinanti, vengono modificate anche con la legge per il risparmio energetico. E adesso con l’incentivo del “cappotto”, poi fanno una riverniciatura che rende le case orrende ancora più orrende perché sono dipinte a nuovo. Almeno prima c’era il fascino del tempo che le aveva corrose. Amo molto il tempo che corrode, in omaggio al mio maestro Carlo Scarpa.

Che importanza ha la malinconia nella tua poetica?
Sono del segno di Saturno, la malinconia fa parte dei saturnini, dei nati sotto il segno del Capricorno. Non sono proprio un allegrone, un compagnone.

Le tue foto ti rispecchiano?
È inevitabile, purtroppo. Cerco sempre di sfuggire da me stesso ma sai, nel ‘400 Cosimo de’ Medici aveva coniato la frase “ogni dipintore dipinge sé”. Inevitabilmente quando si sceglie o si è scelti da un soggetto, in qualche modo tu stesso sei il soggetto. Una casa è il soggetto, ma è anche in qualche modo una metafora di te stesso. C’è poco da fare, insomma. Mentre in letteratura questa gabbia è meno pesante. Anche se Yourcenar diceva che se prendeva in mano un libro e il libro iniziava con “io”, e dopo due righe c’era ancora “io”, alla terza riga lo buttava nel cestino.

Mi sembra molto importante per te che dietro la fotografia ci debba essere una precisa conoscenza della macchina.
Mah, sì, se fai il corridore automobilistico dovrai conoscere a puntino la tua automobile, no? La tua tecnica è quella che tu impari, metti a punto, infatti io continuo a lavorare con la 20×25 perché conosco perfettamente le manovre che devo fare. Quando ho in mano una digitale sono fritto, tocco un pulsante e mi cambia tutto l’assetto della macchina. Oddio, e adesso cosa faccio? Allora telefono a Michele: Michele, mi si è spostato tutto, cosa devo fare? Allora butto via la macchina. Non ho voglia di imparare una nuova tecnica.

Te la senti addosso la dimensione di essere un classico.
Ma più che un classico mi sento un talebano. Anche se ho disprezzo dei talebani: dico in senso metaforico. In quegli anni là ero sicuramente un talebano quando facevo quelle fotografie sbilenche. Le ho fatte anche con il 20×25 e Gabriele Basilico mi sfotteva. E continuare a lavorare con il 20×25 oggi, con i costi che ci sono, senza avere committenze, è da pazzerello, insomma. Ho dilapidato il mio capitale, che non avevo. È una follia lavorare con questo strumento.

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