Aveva 51 anni ed era malato di cancro. Lascia in eredità tre album diventati culto e una storia personale caratterizzata dal difficile rapporto col successo.
Qualche settimana fa ero a cena con alcune amiche che conosco da molto tempo. Parlavamo di quello di cui parliamo sempre – amori, relazioni, figli ipotetici e figli reali, un po’ di lavoro – ogni volta stupendoci di quanto siano cambiati i nostri desideri nel corso degli anni, e noi di riflesso. «C’è stato un periodo in cui mi sembrava importantissimo che comprassimo casa. Era un’ossessione, passavo la giornata sui siti immobiliari», ha detto una di loro mentre versava il vino. «A ripensarci adesso, non mi ricordo neanche perché ci tenessi tanto». Tutte, al tavolo, abbiamo annuito, perché tutte, intorno ai trent’anni, avevamo sentito quell’urgenza di scovare un posto, uno solo sulla Terra, settanta metri o giù di lì, da dividere con il nostro compagno e che potessimo definire davvero “nostro”, anche a costo di legare il nostro destino a quello di una banca per i successivi trent’anni.
Asya e Manu, protagonisti del romanzo di Ayşegül Savaş pubblicato da Gramma Feltrinelli con traduzione di Gioia Guerzoni, Gli antropologi, sono una coppia di Millennial e stanno insieme da diversi anni. Vivono in una grande città occidentale che non viene mai nominata, ma provengono da altri Paesi che non si sa quali siano. Questa scelta può apparire disorientante perché nega, a chi legge, la possibilità di situare la storia in un luogo già definito da un immaginario, o di figurarsi le culture d’origine dei protagonisti. Si tratta di un disorientamento speculare a quello dei protagonisti, gettati in un mondo che non conoscono e che, come gli antropologi di professione, si trovano a decifrare tassello dopo tassello senza che ci sia una bussola a orientarli.
Quel senso di sradicamento, di mancata comprensione del contesto e del proprio ruolo al suo interno non riguarda solamente gli expat ma anche molti trentenni, impostori di una vita adulta in cui faticano a riconoscersi e di cui spesso sentono di dover mettere in scena un simulacro: «Vivere in un Paese straniero può farci sentire come se la nostra vita non fosse del tutto reale», mi ha detto Savaş, a Milano per il festival 2084 organizzato dalla Scuola Belleville, «ma anche nella giovinezza, prima di sapere davvero chi siamo, possiamo avere la sensazione di indossare di volta in volta maschere diverse».
La ricerca delle felicità, cioè trovare e comprare casa
Il romanzo è composto da capitoli molto brevi, procede per frammenti di vita quotidiana apparentemente slegati tra loro ma capaci di restituire il ritmo di un’esistenza puntellata da abitudini minime: le birre con gli amici, le passeggiate al parco dove Asya, documentarista, intervista i passanti, le videochiamate con i parenti lontani, i pranzi dall’anziana vicina che comincia a perdere colpi – sono queste attività minori che costruiscono l’ossatura di quel senso di appartenenza che i protagonisti stanno cercando, e l’autrice vi punta il fuoco con lo stesso sguardo curioso che di solito si riserva ai grandi eventi storici o agli sconvolgimenti importanti della vita.
La scrittura è delicata, quasi sospesa, e infatti Savaş ha raccontato di aver scritto Gli antropologi durante il tempo sospeso della pandemia, quando tutte le cose che davamo per scontate all’improvviso non lo erano più e noi, chiusi nei nostri salotti sempre troppo angusti, non potevamo che guardarle con rimpianto. Se gli anni della pandemia ci hanno costretti ad assumere uno sguardo antropologico sulle pratiche che davano forma alle nostre esistenze senza giudicarle naturali, o spontanee, così Savaş racconta la vita dei suoi protagonisti con uno stupore tenero e nuovo, lo stesso con cui loro guardano gli abitanti della città in cui vivono e che, con una giravolta prospettica, definiscono “stranieri”.
A tenere insieme la narrazione c’è la ricerca della casa che i due protagonisti vogliono acquistare – e tutti conosciamo quella vaga inquietudine di quando l’agente immobiliare spalanca la porta su un appartamento sconosciuto, dove accadono vite sconosciute, e tocca a noi capire se è il posto giusto per noi, se è possibile immaginare la nostra vita lì dentro, e immaginarla felice: «Ogni volta che andiamo a vedere un appartamento in vendita, siamo incuriositi da tutte le diverse vite che si dipanano in città, dalla disposizione degli spazi per lavorare e per riposare, per conservare ed esporre; dalle priorità di quegli estranei, così diverse dalle nostre». Asya e Manu sono impazienti di prendere casa, acquistano mobili al mercatino delle pulci, ammennicoli e stoviglie prima ancora di averla trovata: «Pensare a come arredare casa propria è uno dei modi in cui i protagonisti possono sentirsi padroni della propria vita e dare un senso a ciò che vivono”, sottolinea Savaş, “una casa prende forma nel tempo, con le abitudini quotidiane, le celebrazioni e le occasioni condivise. In un luogo nuovo, privo del peso del tempo o di una comunità, si tende a riflettere con maggiore intenzione sugli oggetti che la compongono, in modo che diventi una casa tanto simbolica quanto materiale».
Una storia d’amore felice, tanto per cambiare
Gli antropologi è anche, o soprattutto, un romanzo d’amore. Non c’è però traccia dei grandi tormenti del cuore che riempiono le pagine dei romanzi che leggiamo di solito, non ci sono litigi o incomprensioni, non si parla di tradimenti e neanche di sesso: Asya e Manu sono una coppia serena, tranquilla, di quelle un po’ escluse dalla letteratura, eppure, dice Savaş, «la loro è una storia che esiste nel mondo, intorno a noi, anche se spesso viene trascurata nei film e nei libri. Volevo riflettere su una relazione armoniosa e farne il centro del mio romanzo, senza la preoccupazione che qualcosa di terribile potesse arrivare a distruggerla».
E in effetti, di terribile, non succede nulla. Rimane intatto, per tutto il romanzo, il desiderio di mettere radici insieme, di eleggere un luogo e una persona a propria patria nel mondo, di rispondere agli stessi interrogativi esistenziali su cui si arrovella il protagonista di 8 ½ quando chiede: «Ma tu saresti capace di scegliere una cosa, una cosa sola ed essere fedele a quella, riuscire a farla diventare la ragione della tua vita, una cosa che raccolga tutto e che diventi tutto proprio perché la tua fedeltà che la fa diventare infinita… Ne saresti capace?».
«Asya e Manu», mi dice Savaş, «si sentono a casa l’uno con l’altra; il loro senso di appartenenza risiede nella loro relazione». La loro felicità non si cura dei palpiti della passione ma prende forma nel calmo conforto di una casa ben illuminata quando fuori è buio, nella lenta e paziente costruzione di un mondo comune, nella definizione di una lingua che permetta di accedere al mistero dell’altro: «Nel corso degli anni, io e Manu ci siamo insegnati a vicenda parole e frasi delle nostre rispettive lingue, quelle che non avevano equivalenti, che definivano qualcosa di essenziale non solo della nostra lingua madre, ma anche di noi. Sono entrate a far parte della lingua che condividiamo, assumendo vari significati fuori dal loro contesto naturale. Il lessico nativo getta luce su vari aspetti dell’altra persona, su come si orienta nel mondo».
Forse è per questo che intorno ai trent’anni ci tenevamo tutte così tanto, a comprare casa. Dietro alle pur validissime ragioni di investimento economico c’era qualcosa di più profondo e che aveva a che fare con il bisogno di quiete e radicamento, con la scelta di un posto dove stare e di un compagno con cui vivere che ci avrebbero definito, rendendoci le persone che volevamo diventare. Con il riconoscimento di un amore che era chiamato, prima di tutto, a offrire stabilità e cura: «È questo che avevo in mente quando immaginavo di appartenere a un luogo: la sensazione di essere necessaria alla vita di qualcuno».