Vita letteraria dei gioielli rubati

Non c'è quasi niente che tenga assieme Robert Louis Stevenson, Roland Barthes e Goliarda Sapienza. Tranne una cosa: una passione per i gioielli, anche e soprattutto per quelli rubati.

20 Ottobre 2025

A chi sono appartenuti e quante volte sono stati rubati: questo, in genere, interessa a coloro che studiano i gioielli antichi. Forse poichè il ritrovamento avviene in contesti assurdi, con le gemme cucite all’interno dei corpetti o nascoste dalle mani del tempo nella campagna del Warwickshire, oppure perché non vengono rinvenute affatto (ammesso che i diamanti e i rubini abbiano l’insopprimibile vocazione al mistero); i gioielli smarriti, smembrati e rimontati da mani diverse, da secoli catturano l’attenzione di scrittori, appassionati e ladri. Lo testimonia una lunga lista: non solo la saliera di Benvenuto Cellini rubata e ritrovata nel folto di una foresta austriaca tra il 2003 e il 2006, ma anche una delle coloratissime uova Fabergé (quelle collezionate, per intendersi, dal mefistofelico Mr. Burns dei Simpson) che è stata inspiegabilmente rinvenuta da un acquirente nel 2004 in un mercatino delle pulci.

“Il diamante del Rajà” di Robert Louis Stevenson

Si dice che fosse attratto dal colore dell’oro (o meglio: dalla possibilità di fonderlo). A questi esempi si aggiungono i gioielli rubati in questi giorni a Parigi. Curioso che siano proprio gli smeraldi (battuti forse solo, nella casistica criminale, dai diamanti) a essere l’oggetto di questi celebri furti. Non a caso primeggia, tra i diversi monili di zaffiri e diamanti che i ladri hanno sottratto alle teche del Louvre, la corona dell’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, ad opera degli orefici J-P Maheu e Alexandre-Gabriel Lemonnier: decorata nientemeno che con aquile imperiali, tempestata di gemme, in particolar modo di smeraldi, essa è stata ritrovata, pare, un po’ danneggiata sul lungo Senna.

Viene in mente un racconto di Stevenson, “Il diamante del Rajà”, tutto incentrato su un furto di meravigliosi brillanti il cui pezzo principale passa di mano in mano, tra le dita di cercatori di tesori e dandy squisitamente british, tra avventurieri e nobiluomini, fino a finire appunto nella Senna, gettato da un elegantissimo (e diabolicamente astuto) principe straniero che decide così di liberare il mondo da quell’inestimabile, ingombrante tesoro. Sorte simile sembra esser toccata alla corona di smeraldi, appartenuta non a caso ad una delle più grandi trend setter del gioiello ottocentesco (epoca che, ben prima delle sfavillanti Liz Taylor e di Wallis Simpson, ha visto le donne divenire icone d’eleganza e della moda anche e soprattutto attraverso la scelta di monili e accessori): l’imperatrice Eugenia.

Il potere delle gemme secondo Roland Barthes

Spesso ritratta con indosso collane e molteplici bracciali, fu lei a rappresentare il modello muliebre di quell’epoca, il Secondo Impero, che fu “intossicata dal potere delle gemme” e arrivò anche all’attenzione niente meno che di Roland Barthes (la definizione, infatti, è sua). La corona, che fortunatamente non ha subito la sorte del diamante di Stevenson, ha tutti i tratti del tipico prodotto d’oreficeria dell’epoca, rutilante e sovraccarico di palme e piume d’oro, nonché dei limpidi tasselli verdi degli smeraldi. Da decorazioni di gioielli imperiali a bottino di iconoclaste autrici anni ’70: cosa succede quando è una scrittrice a rubarli, una scrittrice che negli ultimi anni ha visto finalmente riconosciuto anche dal grande pubblico il suo straordinario talento?

Gli orecchini di Goliarda Sapienza

Goliarda Sapienza, la romanziera al centro del film Fuori di Mario Martone, l’autrice di un classico contemporaneo come L’arte della gioia, deve parte del suo mito proprio a due gioielli: degli orecchini di smeraldo. Appartenevano ad un’amica romana cui Goliarda li sottrasse alla fine degli anni ’70. Sono proprio quegli orecchini ad accendere, con i loro barbagli verdi e oro, il mito dell’autrice di L’università di Rebibbia. Poiché furono loro, di tutti i gioielli che Goliarda aveva rubato e rivendeva per campare, secondo ciò che il marito Angelo Pellegrino ha raccontato nei suoi vari scritti dedicati a lei, a essere riconosciuti dalla cameriera della sua amica a una mostra d’antiquariato del gioiello.

Forse è nel loro colore, come in genere accade per le gemme, che si rispecchia il giardino intricato della loro sorte, nonché delle donne che li hanno posseduti o rubati. Il verde degli smeraldi è stato sempre associato alla rinascita e alla fertilità, sia che brillino sul petto dell’imperatrice Teodora profilatosi sull’oro ineguale dei mosaici di Ravenna, sia che a portarli siano Monica Vitti o Veruschka con la Bisanzio anni ’70 lanciata dalle collane di Bulgari. Dopotutto, è nelle inclusioni, sottilissime crepe proprie di queste gemme, splendide ma fragili (al contrario dei compatti, sfolgoranti diamanti), che spesso risiede il loro fascino. V’è un termine che definisce questi intricati aghi posti nel cuore verde dello smeraldo: jardin, appunto. E questo cuore trafitto, questo prato di cristallo, sembra ben far da specchio alle mode lanciate dall’imperatrice Eugenia e al furto simbolico della geniale Sapienza (per non parlare dei colori, da lampada velata, tipici di Parigi a ottobre) quasi il nucleo color bottiglia dello smeraldo non potesse che attrarre l’avventura e il risveglio che solo comunicano le notizie diffuse attorno a un furto di gioielli.

Persino la ministra della Cultura francese ha ammesso che i ladri che hanno rubato i gioielli dal Louvre sono stati «molto professionali»

Una sconsolata Rachida Dati ha dovuto ammettere che i ladri hanno agito con calma, senza violenza e dimostrandosi molto esperti.

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