Perché vanno tutti in Giappone?

Negli ultimi anni il Paese storicamente chiuso e orgogliosamente isolato è diventato una delle principali mete mondiali. Un’ondata che ha creato non pochi problemi alle sue città e ai siti di interesse turistico.

27 Luglio 2025

Questo articolo è tratto dal nuovo numero di Rivista Studio, intitolato “Gran Turismo”. Lo trovate in edicola, nelle librerie selezionate oppure, più semplicemente, sul nostro store online

Il numero di turisti stranieri che hanno visitato il Giappone nel 2024 ha quasi toccato i 37 milioni, ma nei primi tre mesi di quest’anno la cifra ha già raggiunto i 10 milioni e mezzo. Da dopo la pandemia ogni mese ha visto più ingressi di turisti dello stesso mese dell’anno precedente. Per capire l’impatto del fenomeno, però, non è sufficiente leggere i numeri, perché il Giappone ha una storia particolare per quanto riguarda il rapporto con il resto del mondo. Nel periodo Edo (1603-1868) la politica di governo aveva previsto la chiusura totale dell’arcipelago agli influssi esterni (specialmente quelli europei) tranne in alcuni porti designati come zone commerciali speciali. Nonostante la successiva apertura dei porti avvenuta in epoca Meiji (iniziata nel 1868), il Giappone è rimasto un Paese remoto, difficile da raggiungere e con una cultura insulare, per molti versi a sé stante. Venendo a periodi più recenti, dal Dopoguerra fino alla fine del Novecento i giapponesi erano i turisti per eccellenza: con le macchine fotografiche al collo giravano l’Europa in tour impegnativissimi che toccavano 10 città diverse in una settimana, poi tornavano nel loro Paese sognando di poter visitare ancora quei posti, un giorno. Negli stessi decenni il turismo estero in Giappone non era rilevante, e a muoversi attraverso l’arcipelago erano principalmente i giapponesi stessi. Già da prima della pandemia del 2020 in Giappone – anche per una politica dell’Agenzia Giapponese del Turismo che ha investito in campagne pubblicitarie efficaci – il numero di turisti stranieri è aumentato costantemente, ma è dopo la riapertura delle frontiere, nel 2023, che il fenomeno ha accelerato in maniera esponenziale.

Il caso di Tokyo

Le città e le località toccate dal fenomeno hanno cominciato a cambiare faccia e, accanto al fiorire degli affari per chi lavora nel settore, sono sorti alcuni problemi. Per fare l’esempio di Tokyo, la città è da secoli una meta di immigrazione interna: un gran numero di persone ci si è sempre trasferito per trovare lavoro, spesso rimanendoci a vivere dopo il matrimonio. Il risultato è che le zone rurali si spopolano mentre la città vive in spazi stretti, calcolati al centimetro, le case e le strade sono pensate per funzionare sempre a pieno regime ma solo con i residenti. Per spiegare la cosa, basta dire che l’unità di misura delle stanze, il tatami, ha una dimensione minore a Tokyo che altrove. Inoltre, nel corso del tempo, gli spazi e i trasporti sono stati razionalizzati per servire principalmente i residenti che conoscono la città, il suo sistema di trasporto e la lingua locale. Ma da qualche anno è quasi impossibile uscire dai tornelli della metro senza imbattersi in un gruppo di turisti che ha avuto problemi con la tessera magnetica e che cerca di capire cosa fare interpellando il responsabile della stazione che non sempre capisce cosa gli stiano dicendo. Il problema si presenta anche nei ristoranti, pensati per servire velocemente una clientela locale che – soprattutto a pranzo – entra, legge il menù rapidamente, ordina, mangia e se ne va. Dover parlare inglese, spiegare, ricevere eventuali richieste particolari o lamentele per i ristoratori è un intralcio di cui farebbero volentieri a meno. Da qualche mese si vedono perciò dei cartelli fuori dai locali che si scusano se dovranno rifiutare l’ingresso agli stranieri che non parlano il giapponese. Città come Tokyo erano già alla massima capienza prima dell’esplosione turistica, e l’uso agile degli spazi è sempre stato basato sull’etichetta da rispettare. Viaggiare su treni e autobus con grossi bagagli, ad esempio, aumenta la tensione tra chi usa i mezzi per lavoro e i viaggiatori, che a volte non hanno nemmeno la percezione di essere di intralcio.

Uno dei motivi dell’affollamento dei treni è che la capitale giapponese ha, da decenni, disincentivato l’uso di mezzi privati per spostarsi. Sulle strade gli unici veicoli che si vedono sono i furgoni che devono consegnare la merce, i taxi e pochissime altre macchine; i parcheggi costano moltissimo, sono pochissimi e in generale è molto meglio affidarsi al treno. Questo approccio ha creato una metropoli senza traffico e piuttosto silenziosa, ma da qualche anno è possibile per i turisti noleggiare dei go-kart per godersi le strade di Shibuya o Shinjuku come fossero un parco divertimenti. È sorprendente pensare che, a causa del calo della natalità e dello spopolamento, nonostante il turismo, in Giappone ci sono ogni anno meno persone, ma evidentemente non è un problema di numeri bensì di flussi e di concentrazione.

Una convivenza sempre più problematica

In qualche caso la convivenza tra residenti locali e visitatori può diventare problematica perché alcuni comportamenti normali per i turisti sono considerati inaccettabili qui: sedersi per terra, mangiare camminando o quando ci si trova vicino a un santuario, bere per strada davanti ai konbini sono tutte cose che saltano all’occhio specialmente se a farle è uno straniero. L’uso irrispettoso dei luoghi sacri, poi, scatena in molti giapponesi considerazioni che rischiano di sfociare nella xenofobia, come quando succede che qualcuno maltratti o ridicolizzi i cervi sacri a Nara, animali consacrati alla divinità del luogo. A volte si ha l’impressione che rispetto a un po’ di anni fa il viaggio in Giappone sia un’esperienza più normale, simile a quella che hanno fatto tutti, e mentre un tempo c’era la consapevolezza di essere in un posto lontano migliaia di chilometri con una cultura diversa da rispettare, adesso ci si trovi in una località turistica dove valgono le stesse regole di qualsiasi altro luogo, come in un parco a tema. Oltre a questo, comunque, il fattore di impatto più problematico è il numero: non ci sono mai stati così tanti turisti come adesso e ormai chi abita qui deve calcolare le proprie attività in base al possibile successo che un posto possa avere sui social. Alcune zone di Tokyo sono diventate dei ricettacoli di trappole per i turisti da evitare assolutamente: il mercato esterno di Tsukiji vende prodotti appena passabili da mangiare in piedi a prezzi tripli rispetto al loro valore, lo stesso succede a Nishiki nel centro di Kyoto, i ristoranti di sushi del mercato di Toyosu hanno motivo di esistere solo perché sono lì, altrove non avrebbero clientela, la statua del cane Hachikō a Shibuya ha davanti a sé una fila di persone che si vogliono fare fotografare.

La turistificazione nasce sui social

Accanto alle particolarità giapponesi si vedono anche i fenomeni tipici della turistificazione globale, i prezzi delle camere di albergo raddoppiano o triplicano e nei quartieri residenziali i proprietari cominciano ad affittare gli appartamenti per tre o quattro notti piuttosto che a famiglie che volessero venirci ad abitare. Alcuni prodotti che ottengono visibilità vengono destinati al mercato estero, come è successo recentemente con il whisky giapponese che ormai costa il triplo rispetto a qualche anno fa. Come in moltissimi altri posti investiti dallo stesso fenomeno, per trovare le soluzioni sarebbe necessario ragionare sulla complessità della situazione, e non è un compito semplice. L’agenzia per il turismo giapponese sta cercando di pubblicizzare alcuni luoghi che i flussi turistici normalmente non toccano: zone di campagna, villaggi sulle montagne che si stanno spopolando e che potrebbero ricevere un impulso economico dai visitatori. Non è assolutamente facile, però, perché molte di queste zone sono difficili da raggiungere, i trasporti sono infrequenti e realisticamente pochi turisti investirebbero due giornate all’interno di un viaggio per visitare un luogo che non conosce nessuno. Oltre a questo, è difficile pensare che chi visita il Giappone eviti completamente centri urbani come Tokyo, Kyoto o Osaka, comodi, ben collegati e interessanti anche perché recensiti costantemente dai post, Reel su Instagram, TikTok e Youtube. Il modo di viaggiare è cambiato e l’impressione è che una buona percentuale di chi viaggia lo faccia per vedere e fotografare esattamente le stesse cose che ha visto sui social, lasciandosi guidare dagli influencer o dai “travel creator” e favorendo così l’affollamento degli stessi posti, ristoranti, bar.

La città di Kyoto, da anni ha un rapporto di amore/odio con il turismo: ne ha bisogno per sostenere le traballanti finanze cittadine ma la folla crea disagi sugli autobus, nelle stradine e soprattutto nel quartiere delle geisha, Gion, dove la maleducazione di alcuni fotografi aggressivi ha portato alla chiusura della zona. Sempre a Kyoto, il comune ha gradualmente alzato la tassa di soggiorno ma non è chiaro se questo diminuisca la pressione sulle infrastrutture della città.

Per chi abita in un posto che rischia rapidamente di percorrere la strada che ha trasformato Venezia e altre città europee pare non ci sia molto da fare se non sperare che i posti che si frequentano non diventino virali sui social e che ristoranti, bar e località termali preferite non finiscano nelle liste “I cinque posti che non potete perdervi se andate in Giappone!”.

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