Cultura | Pop

La resurrezione di Furby, il migliore amico del Millennial

A venticinque anni dall'arrivo nei negozi, Hasbro rilancia uno dei suoi giocattoli più famosi e amati, ossessione di una generazione, nel frattempo diventato un simbolo pop grazie a libri e film.

di Giulio Silvano

Avete sempre voluto un animale domestico ma i vostri genitori non ve l’hanno mai preso? La soluzione a questo dilemma dell’infanzia l’aveva trovata Hasbro nel 1998 lanciando sul mercato Furby. Un animaletto robot, un po’ gufetto un po’ alieno peloso, che incarnava la capacità degli esseri organici di interagire e, soprattutto, di imparare la lingua del proprietario, applicata però a un giocattolo con delle batterie. La passività del peluche, del bambolotto, dell’action figure, diventava datata di fronte alla possibilità di acquistare un simil-cucciolo senza il fardello delle responsabilità della sua sopravvivenza: portarlo fuori a fare i bisogni, comprargli e dargli da mangiare, non farlo morire. Una situazione win win per genitori e figli, al prezzo di cento dollari in un qualsiasi Walmart. Nei primi tre anni di produzione vennero venduti oltre 41 milioni di Furby in tutto il mondo. Sotto le feste la gente si picchiava nei centri commerciali per portarselo a casa. In Italia fu promosso come un giocattolo pensato soprattutto per le ragazzine, con l’idea di prendersene cura, cavalcando il senso di maternità, in particolare quando venne presentato il Furby baby, versione mignon dove, nello spot, la bambina fa la madre, un Furby più grande rappresenta invece il padre che abbassa il giornale quando interpellato. Chi vuole giocare con il bambino-Furby? Altro che famiglia queer.

Esisteva già il Tamagochi, certo, nato due anni prima, nel ’96, ma quello in fin dei conti era un videogioco, una sorta di pre Happy Farm 2D da attaccare allo zaino come un portachiavi, che creava la dipendenza della cura e il sistema di reward serotoninico dato dalla crescita del pulcino. La vera novità del Furby era che non si poteva spegnere, creando appunto quel senso iper-realistico di avere in casa un essere vivente, che invece di essere off dormiva e si svegliava a suo piacimento. Diverso quindi da quello che potrebbe sembrare, a livello robotico, un suo altrettanto desiderato antenato per i bimbi degli anni ‘90, Emiglio è meglio. Il robottino della Giochi Preziosi era un aiutante, un maggiordomo, cioè il motivo per cui è nata la tecnologia: superare la schiavitù, pretendere la piena automazione. Emiglio «non ti dice mai di no», diceva lo spot. Tu potevi parlare attraverso Emiglio, mandarlo in giro nella stanza, dove volevi tu, e usarlo come proxy, come tuo delegato, senza muoverti dalla cameretta, farti portare i pasticcini su un vassoio.

Furby invece ha una sua indipendenza, può parlare quando vuole, può disturbarti, e sei tu a diventare il suo servitore. Forse in Furby possiamo vedere il passaggio dall’usare le macchine a nostro favore, per renderci la vita più facile, a usare la tecnologia per diventare noi i caregiver dei robot. Entrambi erano oggetto bramato, a Natale e ai compleanni, di molti, ma in Italia regalati solo agli appartenenti più che a una classe benestante, a un ceto medio che non vedeva nel robot con una telecamera integrata una minaccia, che non trovava nell’umanizzazione, o animalizzazione, estrema e nel libero arbitrio di un giocattolo qualcosa di bizzarro. Negli aerei fu vietato per paura che interagisse con la rete. Per paura che potesse spiare, l’Agenzia per la sicurezza nazionale americana lo aveva vietato nei suoi edifici. Negli anni, poi, Furby è diventato anche simbolo culturale: negli ultimi anni è comparso in Uncut Gems e in I Mitchell contro le macchine.

Furby parlava con un suo linguaggio, ogni tanto canticchiava con una vocina acuta, faceva continue richieste di attenzione, come una forma precoce di richiamo da notifica, dodici anni prima che venisse inventato l’iPhone. Furby aveva un microprocessore 6502 e un sistema di apprendimento del linguaggio che lo faceva arrivare a ripetere oltre ottocento frasi diverse. Sembrava, allora, l’apice della tecnologia. Un amico – come dicevano le pubblicità – più che un gioco. Diversi motori sparsi nel corpo gli permettevano di fare centinaia di combinazioni diverse di movimenti, tra occhi, orecchie, pancia e bocca. Lo si nutriva infilandogli un dito in bocca, tra quelle piccole fauci che sembrano un becco. «Me amare te», diceva. Inoltre i Furby potevano interagire tra di loro e quindi i suoi possessori – o genitori, o padroncini – potevano vedersi a casa uno dell’altro e mettere i rispettivi animaletti a chiacchierare tra loro, creando una sorta di play date settaria.

C’era qualcosa di inquietante nell’animaletto che sembrava un Gremlin, ma con pelliccia fluo, tanto che nel libro di Claudia Grande – millennial che ha vissuto in pieno l’invasione dei mostriciattoli robotici – Bom Bum Bam Ketamina (Il Saggiatore) Furby è un essere demoniaco, un po’ come il Terby – l’ispirazione è ovvia – di Lunar Park di Bret Easton Ellis. Come giocattolo, con il tempo, è morto, ed è continuato a esistere solo su TikTok, dove l’hashtag #Furby ha accumulato oltre 550 milioni di visualizzazioni. Dopo diversi tentativi  – nel 2005, nel 2012 e nel 2016 –  di rilanciarlo sul mercato, è arrivato, pochi giorni fa, il nuovo modello. «Il giocattolo che ha terrorizzato i genitori», ha titolato il Wall Street Journal. La Hasbro rilancia Furby giocandosi la carta nostalgia, visto che ormai anche gli anni Novanta sono diventati vintage, retrò, e sperando che i millennial che l’hanno avuto – e ancora di più quello che non l’hanno potuto avere a causa di genitori troppo premurosi o filomontessoriani –  li comprino ai loro figli. Marketing effetto nostalgia, un po’ come la caterva di sequel hollywodiani, tra Indiana Jones, Star Wars e Ghostbusters.

La vera novità è che, questa volta, Furby si potrà spegnere. Perde la sua autonomia a nostra richiesta, diventando quindi, con questa possibilità di metterne in pausa la “vita”, uguale a qualsiasi altro giocattolo. Rebranding estetico, più pastellato e cute, con cuoricini negli occhi e orecchie giganti a punta. Con il terrore dei computer senzienti, con l’AI galoppante in ogni settore, il Furby fa l’effetto dell’ultima stagione di Black Mirror: la realtà ha superato la fantasia, cosa ce ne facciamo di un pupazzo peloso, e bruttino, se ora anche al sushi o in aeroporto ci sono i robot che ci parlano?