Stili di vita | Estate

Elogio dell’ortofrutta

Il piacere di assistere alla nascita di un rapporto che ruota intorno alla frutta e alla verdura.

di Davide Coppo

Questo articolo fa parte di “Studio estate”, una serie di pezzi dedicati ai simboli e ai luoghi dell’estate. Potete leggerli tutti qui.

I fratelli Losciale nei miei ricordi sono sorridenti e hanno ancora addosso un grembiule blu operaio che arriva fino alle ginocchia. Erano i proprietari del negozio di ortofrutta del piccolo paese dell’hinterland di Milano in cui sono cresciuto, tra la strada provinciale e la campagna (e, successivamente, i grandi centri commerciali). Erano gli anni tra gli Ottanta e i Novanta, “dai Losciale” accompagnavo mia madre o mia nonna a fare la spesa il sabato. A fianco a loro, sul marciapiede, ricordo il venditore di Marlboro di contrabbando, seduto indisturbato sul marciapiede con le stecche bianche e rosse disposte davanti a lui. Non conoscevo, da bambino, i supermercati: la grande Esselunga sulla provinciale avrebbe aperto soltanto dopo, e per la frutta e la verdura, in famiglia, si andava al mercato – il giovedì – o “dai Losciale”. Il mercato non mi piaceva: era come un tunnel pieno di vecchi, tutti dotati di quel carrellino triste di colori tristi, bordò o marrone, e confusione, e urla, e una finta cortesia dei venditori nei confronti di questi stessi vecchi – e di mia nonna. Dai Losciale era diverso: c’era tranquillità, il pavimento di marmetta, le cassette di frutta e verdura disposte alle pareti, soprattutto i grandi bidoni di plastica pieni di noci, mandorle, e arachidi, che mia nonna chiamava spagnolette. I fratelli Losciale erano due, uno alto e più vecchio, mi sembra, e uno più basso e sorridente, quello deputato alla conversazione, con la nonna e con me. Avevano entrambi un che di esotico ai miei occhi – e tuttora nei ricordi – di bambino cresciuto tra i nomi di famiglie della Lombardia, del Piemonte e dell’Emilia – Coppo, Ferrari, Fugazza –, a partire dal cognome. Fino a poco tempo fa non ho mai indagato da dove venisse. L’ho cercato di recente su internet, digitandolo su uno di quei siti che fanno la mappatura di cognomi. È venuto fuori che è un cognome pugliese, quasi interamente concentrato nell’area di Bisceglie. Nel frattempo ho mappato anche i cognomi dei miei rami familiari, scoprendo che quella nonna cresciuta nella Bassa lodigiana ha, in realtà, origini laziali.

Non ho più frequentato ortofrutta fino a pochi anni fa, quando mi sono trasferito in questa casa di Milano nord e me ne sono trovato uno proprio sotto casa. All’inizio, comunque, l’ho snobbato. Ogni sabato c’era il mercato, e potevo rifornirmi lì, scegliere il banco migliore per le albicocche, quello per i fagiolini, spostarmi per le olive e mettermi in coda per il formaggio. Poi, tornando a casa dal lavoro, ho iniziato a fermarmi da lui, l’ortofrutta. Arrivavo alle sette e mezza, quando lui stava impilando le cassette sul pavimento – sempre di marmetta – all’interno, e la moglie sciacquava i ripiani svuotati. È della Puglia anche lui, ho scoperto quasi subito. Ho iniziato a tornarci, sempre dopo il lavoro. La prima volta che sono riuscito a passare prima del solito orario, mi ha detto: «Oggi siamo in anticipo». È stata una scemenza, ma una scemenza bella.

Ogni volta – ogni singola volta – prova a vendermi il suo minestrone, «è tutto già tagliato», e ogni volta gli dico che il minestrone mi piace tagliarmelo da solo, che mi rilassa, che cucinare è un’appendice della mia terapia. Ogni volta lui ride, lo vedo che pensa qualcosa come “che cretinate dice questo”, e dice: «Contento tu». Non so come si chiamino, né lui né la moglie. Lei è silenziosa e ritirata, ma non scontrosa. Veste sempre di nero. A volte si prendono in giro, lui se ne sta troppo tempo nel retrobottega a preparare qualcosa, e lei non conosce tutti i prezzi al chilo. Lei fa la cassa e a volte mi fa credito, adesso conosce il mio nome scritto sugli scontrini. Lui ha le dita costantemente sporche di terra. Se un cavolfiore non gli piace, me lo fa pagare la metà. Una sciocchezza e una cosa normale, che forse mi ricorda una cortesia perduta o infantile. E poi mi piace poter parlare con qualcuno. Mi piace assistere in modo lento e sistematico, non ogni giorno ma settimana dopo settimana, alla nascita di un rapporto.

È un vezzo da Millennial, diranno gli articoli, e chissenefrega. Costa più di un supermercato, sì, ma mangiare è la cosa più importante della nostra vita, e non voglio che sia un gesto di plastica come acquistare uno shampoo. Ogni aspetto che circonda il mangiare è intriso di vita: la nascita e la maturazione di un frutto, la raccolta, e anche vendita al dettaglio. Non posso naturalmente conoscere tutti i passaggi, ma mi interessa vederci il più possibile, nella semplicità di una bottega. Da dove viene quel broccolo? «Lascia perdere», mi ha detto poco tempo fa. Avevo voglia di broccoli e acciughe e limone. «Diventano gialli subito». Ho lasciato perdere. Le pesche, gli ho chiesto un giorno di maggio, sono già buone? «In Sicilia ci sono 25 gradi da marzo», mi ha risposto come se fosse ovvio. Ho detto ok, fammele provare. Non erano buone, non come delle pesche di giugno o luglio. Ho imparato che di pesche non se ne intende.

Questa primavera, mi ha insegnato a cucinare il tarassaco. «Io lo faccio così…», mi ha spiegato. Quando compro quantità strane o eccessive, si incuriosisce: «Cosa ci devi fare?», mi ha chiesto di un sacchetto pieno di prezzemolo. Gli ho spiegato la preparazione del tabbouleh, che deve essere prezzemolo, prezzemolo, prezzemolo, limone, limone, limone, e solo dopo tutto il resto. Era scettico, non gli piace così tanto il prezzemolo, copre i sapori dice. Una volta, al mio ennesimo rifiuto di un sacchetto di “preparato per minestrone” già sminuzzato, mi ha domandato come lo faccio io allora, questo minestrone. Gli ho detto che ci aggiungo dei pezzi di spalla di maiale a sciogliersi a fuoco lento, per quattro o cinque ore. «Ma non è un minestrone quello!», ha protestato ridendo, sempre prendendosi gioco di me. «È più uno stufato», gli ho detto. È rimasto scettico. È un conservatore? Sì, forse. Ma d’estate, a volte, vedo le prostitute cinesi del marciapiede all’angolo sbucare dal retrobottega, dove fanno una pausa dal sole mangiando prugne e albicocche.