Stili di vita | Polemiche

La storia un po’ comica un po’ tragica della stroncatura di un ristorante stellato a Lecce

La recensione di una blogger americana del Bros' di Floriano Pellegrino e Isabella Potì ha portato a una sorprendente discussione sui limiti del giornalismo gastronomico e sulla seriosità del mondo dell'alta cucina.

di Francesco Gerardi

Tutti gli appassionati della cosiddetta food tv conoscono Chef’s Table, la serie Netflix creata da David Gelb. Per capirci, è quella piena di slow motion su padelle sfrigolanti e piatti in composizione, ricchissima di frasi motivazionali ed esempi di vita: la cucina come via all’identità personale e collettiva, il cibo come storia e cultura e, in certi casi, persino arte. Certo una serie bellissima, ma anche un altro racconto serissimo di un mondo che tende già alla seriosità. «Nella nostra comunità non siamo granché capaci a prenderci gioco di noi stessi e onestamente non riesco a capire perché. Io, personalmente, sono sempre stato incuriosito da questo aspetto del nostro mondo e ho sempre sentito il desiderio di esplorarlo, perché ovviamente non c’è niente che faccia ridere come una persona che si prende troppo sul serio», ha detto lo chef Hugh Acheson, che infatti partecipa come voce narrante alla prima stagione di quella che resta probabilmente la più spassosa presa per il culo alla sua comunità/mondo (high cuisine world, è la sua definizione), la serie Gods of Food di Rekha Shankar.

Ci sono le persone che si prendono troppo sul serio e poi c’è Floriano Pellegrino, che è esattamente quello di cui si è parlato fin qui: di mestiere fa lo chef, vive in quel high cuisine world di cui parla Acheson, è giovane, è bello, ha un ristorante a Lecce che si chiama Bros’ e divide con Isabella Potì una stella Michelin. La Guida ha definito lui e lei «spiriti liberi e giovanili, di creatività e d’immagine sorretta da qualità», interpreti di una «cucina di grande qualità che merita la tappa». Non c’è niente da ridere, insomma: come ripete (spesso) Pellegrino, qui si fa la rivoluzione e pure la storia. “Non c’è niente da ridere” immagino sia il pensiero che deve essersi formato anche nella mente della blogger Geraldine DeRuiter durante la sua cena a Bros’, diventata l’oggetto di una recensione che in questi giorni ha occupato il dibattito pubblico di entrambi i mondi, quello vero e quello della high cuisine. DeRuiter ha un blog di discreto successo che si chiama The Everywhereist, e chissà se questo scazzo con i Bros’ non la aiuterà a passare al prossimo livello: “We eat at the worst Michelin starred restaurant, ever” è la cronaca di un’esperienza di quattro ore divise in ventisette portate nel ristorante leccese. C’è qui una discrepanza che è la cosa più spassosa di tutta questa storia: il menù degustazione di Bros’ non è composto da ventisette portate, da quello che ho capito ce n’è uno da otto e un altro da tredici portate. Che DeRuiter ne abbia contate o vissute 27 dovrebbe farci ridere assai di lei, dei Bros’, del concetto stesso della cena-esperienza.

Una stroncatura, questa di The Everywhereist, di per sé divertente ma resa esilarante dalla conoscenza del contesto e dall’aggiornamento sulle conseguenze. Il pezzo di DeRuiter fa ridere ma è anche e soprattutto la conferma di quanto diceva Acheson: «ovviamente non c’è niente che faccia ridere come una persona che si prende troppo sul serio». E, come detto, ci sono le persone che si prendono troppo sul serio e poi c’è Floriano Pellegrino. Contattato da Usa Today per un commento sull’accaduto, lo chef ha risposto con un saggio breve/manifesto ideologico lungo tre pagine di cui ha preteso la pubblicazione integrale, intitolato “Dichiarazione dello Chef Floriano Pellegrino” e aperto dal disegno di un uomo in sella a un cavallo. «Che cos’è l’arte? Che cos’è il cibo? Che cos’è uno chef? Che cos’è un cliente? Che cos’è il buon gusto? Che cosa è bello?», chiede (agli altri soltanto, immagino) Pellegrino.

Valentina Dirindin su Dissapore ha scritto che probabilmente da questa storia stiamo traendo gli spunti di discussione sbagliati. E quando mai. Dirindin scrive che forse la cosa più interessante in questo scazzo tra un piccolo blog e un grande ristorante è la dimostrazione di un certo conformismo divenuto pian piano istituzionale tra chi scrive dell’high cuisine world, un’abitudine che ha portato tanti chef ad assomigliare al protagonista di quello sketch di Gods of Food, quello con il cuoco che può essere commentato solo in francese («incroyable, magnifique, Depardieu»). Probabile sia anche una reazione inevitabile alla trasformazione delle cucine in laboratori, dei piatti in paper scientifici o saggi sull’arte: un genuino e infantile senso di meraviglia, perché è più facile così che «imparare l’estetica», come diceva A. A. Gill, che di ristoranti ha scritto più e meglio di tutti. Probabilmente questo è un punto a favore di Pellegrino, che alla definizione di artista contemporaneo pare tenerci assai. Tocca imparare l’estetica oppure starsene meravigliati o allibiti, ma sempre silenziosi, di fronte al prossimo esperimento scientifico o installazione artistica che esce dalla cucina diventata laboratorio/bottega. L’alternativa è fare la figura degli scemi e prendersi pure il cazziatone dello chef.

Non che tutto questo ridimensioni o cancelli la questione della suscettibilità. Per chi fa il mestiere della provocazione non dovrebbe essere così difficile accettare il fraintendimento, e l’ironia o il sarcasmo che da questo conseguono alla fine sono soltanto il tentativo di darsi una spiegazione (magari anche una maniera di rispondere a quella sequenza di domande poste nella Dichiarazione dello Chef Floriano Pellegrino, documento il cui titolo, nelle intenzioni dell’autore, suppongo vada citato ogni volta per intero come si fa per quella dell’Indipendenza Americana e dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino). Servire al tavolo una sfera-calco della bocca dello chef – «ma dentro c’erano anche lingua e denti?», ha chiesto Helen Rosner, critica del New Yorker – riempita di una schiuma colorata e invitare i clienti a succhiare lo spumoso nettare perché tanto di posate non saranno forniti, servire questo dessert e annunciarlo con il titolo “Limoniamo”, tutto questo dovrebbe presupporre una certa disposizione dell’animo e/o tendenza del carattere. Di chi ordina, certamente, ma anche, forse soprattutto, di chi serve. «E allora perché, di fronte a questo loro profilo ben definito, ci stupiamo che qualcuno possa aver trovato irritante una cena da loro?», chiede Dirindin. Giusto. Ma anche: perché se ne stupisce Pellegrino, perché i Bros’ se la prendono?

Nella Dichiarazione dello Chef Floriano Pellegrino si parla moltissimo di arte contemporanea e di avanguardia, e forse tanto basta a capire perché a DeRuiter la cena non sia piaciuta e perché lo chef si sia offeso tanto. Lasciamo stare il fatto che il discorso sui «nuovi orizzonti, sullo sconosciuto, sul dubbio» venga portato avanti (come sottolineato da Eater) rielaborando la storiella, rancida ormai come la ricotta servita nel menù degustazione di Bros’, di Picasso che impiega quattro anni per imparare a dipingere come Raffaello e tutto il resto della vita a fare la stessa cosa come un bambino («le note sono sette e chi vuole se le fotte», diceva un altro artista pugliese, Luca Pasquale Medici). Lasciamo stare il fatto che le Science & Cooking public lecture series di Harvard siano state raccontate nel dettaglio e che non ci vuole molto a riconoscere le derivazioni dei discorsi di Ferran Adrià (si può essere allo stesso tempo avanguardisti e derivativi?). Lasciamo stare che tutta l’arte d’avanguardia di Bros’ è acquistabile presso il negozio online del ristorante, e probabilmente un paragrafo sulla differenza tra opera d’arte e prodotto commerciale avrebbe reso la Dichiarazione lunga quella pagina di troppo (lo spazio per lo gnegne, però, quello si trova sempre: «”Limoniamo” è sold-out per la prima volta», gongola Pellegrino in chiusura di manifesto). Lasciamo stare il fatto che nella Dichiarazione dello Chef Floriano Pellegrino ci sia scritto “boundery” invece di “boundary”. Lasciamo stare tutto quanto e concentriamoci sulle domande, come vuole Pellegrino. Qual è un possibile contrario di “avanguardia”? Unanimità. Che importa all’artista di una stroncatura scritta da una signora XXX, come Pellegrino ha ribattezzato l’irrilevante DeRuiter, colto da un improvviso vuoto di memoria?

Qualche giorno fa ho rivisto The Square, il film bellissimo di Ruben Östlund che vinse la Palma d’Oro nel 2017. Rileggendo la Dichiarazione dello Chef Floriano Pellegrino mi è tornata in mente una scena: ci sono Elisabeth Moss, che interpreta una giornalista, e Claes Bang, che fa il direttore di un museo di arte moderna e contemporanea. Lei chiede a lui una spiegazione di una cosa scritta nel sito del museo. La cosa scritta fa: «Esposizione-non esposizione. Una conversazione serale che esplora le dinamiche dell’esponibile e le costruzioni della sfera pubblica nello spirito del site-non site di Robert Smithson. Dal non-site al site, dalla non-esposizione all’esposizione, qual è il topos della non-esposizione nel momento della mega-esposizione?». A quel punto il direttore del museo prova a spiegare che il punto è cosa possiamo considerare arte e cosa no, e perché, e come. «Se, per esempio, mettiamo un oggetto nel museo, questo può rendere quell’oggetto un pezzo d’arte? Per esempio, se ora prendiamo la sua borsa e la mettiamo lì… Questo la fa diventare arte?». La giornalista lo fissa per un attimo e poi risponde «Ah. Ok.».