Il libro di Samantha Harvey, vincitore del Booker Prize 2024, è ambientato nella Stazione Spaziale Internazionale e si chiede cosa sia l'umanità senza il suo pianeta, e viceversa.
Era il 2015 quando Eugenia Dubini avviava NN editore, il suo sogno di ragazza coi sodali di una vita. Dieci anni dopo, la squadra si è allargata a molte più persone di quelle che ticchettano sui tasti in redazione nella mattina di settembre in cui ci incontriamo, e gli scaffali sono abitati da centinaia di libri, riuniti in gruppi per macchie di colore che stanno a indicare l’appartenenza a qualcosa che non è né un genere né una collana. Eugenia li dispone davanti a me sul tavolo delle riunioni, confortevole come il tavolo da pranzo di un soggiorno, riunendoli per “famiglie”. Non si tratta banalmente di gialli, di americani o di memoir. Il legame che li unisce in gruppi è più segreto e va raccontato.
ⓢ Com’è iniziato tutto quanto?
In modo obliquo. Perché io vengo da una formazione economica, ma ho sempre avuto un luccichio negli occhi quando sentivo parlare di editoria. Dopo la laurea, ho lavorato tanti anni nella sezione libri del Sole 24 Ore, poi nell’agenzia fotografica Prospekt, altra mia grande passione. Beh, viene fuori che tutto quel che ho fatto, a un certo punto della vita, risulta incredibilmente utile proprio per il sogno che avevo sempre avuto, pur non provenendo da una famiglia di intellettuali: diventare editore.
ⓢ E il momento è arrivato quando?
Nel 2012 ho ritrovato delle persone che conoscevo da tanto e che con me condividevano la passione per l’editoria, proprio nel momento in cui io per caso avevo un capitale, che mia nonna mi aveva chiesto, come un mandato, di trasformare in qualcosa di bello, perché era legato a una cosa molto brutta della sua vita.
ⓢ Puoi dirmi di più?
La gente è molto sospettosa quando parli del fatto che hai iniziato da un capitale. Mia nonna non aveva mai venduto la casa dove le era morto un figlio. Mi chiese di venderla e di trasformare il dolore passato in qualcosa di buono per il futuro.
ⓢ Con chi è iniziata l’avventura?
Con gli amici Edoardo Caizzi, che è anche l’editore di Milieu, e Alberto Ibba, che ora non è più in NN. Ci eravamo incontrati tutti a Rivisteria, la rivista diretta da Bea Marin. E poi c’era Gaia Mazzolini, la mia storia tragica, mia migliore amica e sorella elettiva.
ⓢ Cosa è successo?
Gaia è mancata nel 2016, durante il primo anno di attività. I libri erano appena usciti in libreria e lei cominciava a andare per ospedali. Kent Haruf andò subito benissimo, avrebbe dovuto essere un momento di estrema felicità, e invece. Il mio cervello in quel momento si è sdoppiato, facevo la mia parte e pensavo a quel che avrebbe detto Gaia. Il lavoro mi ha salvato, anche grazie a persone come Serena Daniele, Marianna Gennari e Gioia Guerzoni che sono arrivate in redazione.
ⓢ Torniamo al 2012.
Era l’anno della profonda crisi dell’editoria. Proprio quello che sta succedendo anche nel 2025: una pesantissima riduzione di vendite. Ci sono strane coincidenze tra il 2012 e quello che sembra iniziare oggi.
ⓢ È preoccupante?
L’editoria vive da sempre momenti di profonda crisi e rinascita. Soprattutto, di resistenza. Il prodotto-oggetto-libro a ogni novità tecnologica viene dato per spacciato, tutti a dire è finita, arriva l’intelligenza artificiale, e invece poi…
ⓢ Dicevi che c’è una strana consonanza tra il momento in cui avete cominciato e il clima odierno.
Stiamo vivendo il nostro decimo anno di attività in un momento di particolare down (a parte il mese di luglio, che nell’editoria è quasi come il Natale). Noi però siamo in una fase assolutamente positiva, di crescita, stiamo raddoppiando le nostre vendite.
ⓢ Quest’estate è uscito un articolo sul New Yorker intitolato “What’s happening to reading”, su come la lettura lineare e profonda stia finendo.
È vero dal punto di vista neurologico: esiste sempre meno quella lettura profonda, concentrata, solitaria. D’altro canto, quando è nato NN, la lettura stava già cambiando, in Italia nascevano comunità online ma soprattutto fisiche: i gruppi di lettura. La lettura evolveva da esperienza individuale a esperienza che genera comunità e discorso. E su questa base, un pezzetto della scommessa di NN è stata costruita.
ⓢ In dieci anni, il criterio di selezione dei titoli è in qualche modo cambiato?
I criteri di selezione dei libri sono la cosa più difficile da spiegare di come lavora un editore. Ma sì, è evoluto. All’inizio ragionavo semplicemente per un lettore molto curioso che potesse spostarsi di genere in genere, ma che apprezzasse una certa qualità della scrittura che definiamo letteraria. Siamo partiti da libri-mondo che raccontassero l’identità nel contemporaneo, specie riguardo alla confusione valoriale in cui siamo immersi. La società senza padri eccetera…
ⓢ E poi?
E poi abbiamo aperto. Abbiamo lanciato la collana degli Innocenti, ovvero gli esordi italiani. Abbiamo lanciato le Fuggitive, tutte scritture femminili. Adesso stiamo aprendo a vari filoni di ricerca, come quella sul maschile, e poi le Perenni – scritture autobiografiche riunite sotto il nome di un’erbaccia infestante, perché un tempo erano un genere disdegnato mentre oggi sono al centro del dibattito letterario.
ⓢ Mi parli di collane, ma voi all’inizio non usavate il termine collana, preferendo parlare di stagioni o serie…
Sì, all’inizio è stato bello farsi domande rispetto a tutto. Ci siamo chiesti: la collana parla davvero ancora a qualcuno? Tu quando compri un libro sai a che collana appartiene? Spesso no. Così l’abbiamo chiamata “serie” perché allora c’era l’esplosione delle serie tv: facevano community. All’interno della serialità c’erano le trilogie, come Haruf, o le stagioni: accomunate da una stessa ricerca tematica, indipendentemente dal genere o dalla provenienza geografica. Per esempio, le Fuggitive le riconosci dal colore e sono legate dal tema.
ⓢ Sai dirmi se pubblicate più donne o uomini?
Io penso che stiamo pubblicando più autrici, ma non ne sono certa. Certo è che la proposta editoriale è molto influenzata dal momento esterno: come editor, siamo filtri ma anche spore. Sin dall’inizio pubblicavamo quelle che chiamavamo tra noi “donne difficili”, ma solo piano piano si è costruita la collana di autrici femminili. Ci abbiamo messo 5 anni, siamo arrivati alla fine del MeToo, ma avevo bisogno di capire bene su che cardine farla ruotare.
ⓢ I lettori sono consapevoli di questi filoni di ricerca?
Mi è capitato una volta in libreria di sentire qualcuno che chiedeva: mi dia l’ultimo NN. Una cosa bellissima, ma anche una rarità. Ci sono più persone che si affidano a noi per la letteratura americana, anche se il criterio geografico non è tra i nostri. Io tento di tenere il lavoro editoriale per quanto possibile invisibile. Però ho visto materialmente cambiare il pubblico da quando le Fuggitive si sono imposte: un pubblico che nelle fiere va diretto a quel mucchio, un pubblico più giovane. Per esempio con la Levy.
ⓢ Quanto la fioritura di un editore dipende da un autore di punta? Deborah Levy è tra queste, come sembra di percepire a me nella mia nicchia?
Sì, Levy è un ottimo esempio, come lo è Liz Moore. Abbiamo pubblicato Liz Moore per anni – l’abbiamo addirittura ripubblicata – e finalmente ha avuto un grande successo. Questo è politica d’autore: puntare su qualcuno a lungo, senza esitazione. Questa è costruzione del pubblico dei lettori. Siamo oltre le 70mila copie, numeri impensabili, costruiti poco a poco.
ⓢ C’è qualche altra storia editoriale particolare?
Quella di Orbital di Samantha Harvey, un libro ambientato nella Stazione spaziale internazionale in cui c’è tanto amore per la Terra, tanta saggezza. Quando abbiamo comprato i diritti non si sapeva ancora del Booker Prize, altrimenti non me ce lo saremmo potuto permettere.
ⓢ Qual è la storia dietro all’acquisizione del vostro primo titolo, Benedizione di Kent Haruf?
Haruf non lo voleva nessuno. Io lo notai in una lista di un premio alla mia prima Fiera di Londra. Il titolo era Benediction. Pensai: quanto sarebbe bello iniziare con un titolo come questo? Lo leggemmo Gaia ed io con Fabio Cremonesi che poi lo avrebbe tradotto. Rizzoli aveva pubblicato un titolo della trilogia senza che nessuno lo notasse. Prendemmo tutta la trilogia, lui morì prima di poter vedere l’enorme successo partito dall’Italia e mosso a onda verso Francia, Spagna, Grecia. Una storia incredibile.
ⓢ Quando e come avete deciso di iniziare a pubblicare gli italiani?
È stato nel 2018, con il primo Camurri nella collana degli Innocenti, cioè gli esordi. Mi sembrava così sbagliato dal punto di vista del ruolo di editore concentrarsi unicamente su autori stranieri quando operavo in Italia, dove spesso mancava un brodo di coltura per gli autori, specie esordienti. Oggi ci sono più comunità accoglienti di scrittori. Prima, mi sembravano isolati e senza possibilità di scambio. Paradossalmente l’editoria sembrava più vicina e accessibile ai lettori che al mondo della creazione.
ⓢ Quando curate un autore italiano, la vostra presenza è maggiore?
Sì, è molto intensa sia in fase di redazione – curata con amore da Serena Cabibbo – che di promozione sul territorio. La parte drammatica è che poi spesso l’autore se ne va. Si sa: l’editore indipendente è da sempre trampolino di lancio. Ma andarsene non è sempre una scelta vincente per il giovane autore. Dipende dalla sua caratura, mi viene da dire dal suo carapace. Noi siamo un mondo piccolo e stretto, commerciale marketing e editoriale si parlano, è uno spazio più confortevole per i nuovi autori.
ⓢ La vostra identità visiva è molto forte.
In Italia i lettori ricercano la fiducia nell’editore, a differenza del mercato anglosassone dove si ragione più per autore. Ecco perché abbiamo voluto la riconoscibilità del marchio nelle nostre copertine. Nella N grande, è racchiusa un’immagine che parla delle domande aperte dal libro. Il mio pezzo di vita nella fotografia è stato importantissimo in questo senso: le copertine le facciamo tutte internamente attraverso ricerche d’archivio. Non realizziamo apposta le immagini. È più bello perché è come un incontro. Spesso lo stesso autore mantiene sempre lo stesso illustratore. Ad esempio Joyce Maynard e Maia Flore. Le due hanno come una connessione.
ⓢ C’è una cosa che hanno solo i libri NN in Italia?
Non penso proprio! Ma forse c’è una sensazione comune che tutti provano dentro a un libro NN. Ti faccio un esempio. Quando pubblicammo il primo libro di Jesmyn Ward, Salvare le ossa, uno dei titoli a cui sono più legata in assoluto, lavorammo tanto sul testo e in particolare su una frase interna di una bellezza incredibile, che non sta in copertina né da nessuna parte. In redazione ne parlammo ossessivamente. Poi tutte le persone che hanno scritto di quel libro hanno estrapolato proprio quella frase. In quella frase era racchiusa tutta la passione per il nostro lavoro.
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