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Elizabeth Wurtzel e l’invenzione delle ragazze interrotte

È morta a 52 anni l'autrice di Prozac Nation, il prototipo del memoir sulla malattia mentale.

08 Gennaio 2020

Oggi, nel 2020, i memoir che parlano di malattia mentale, psicofarmaci e dipendenze sono tanti e a loro modo importanti, a prescindere dalla qualità letteraria, perché offrono un’antologia di esperienze che continuano a esistere e meritare di essere raccontate. Prozac Nation di Elizabeth Wurtzel è stato uno dei più potenti e influenti, perché nel 1994 raccontò in modo nuovo – brutale, ma anche spiritoso – le esperienze di una ragazza problematica: l’abuso di droghe, i genitori divorziati, le prime esperienze sessuali e, soprattutto, la depressione, incarnando lo spirito del tempo (Girl, Interrupted di Susanna Kaysen è del 1993, il 1994 è anche l’anno del suicidio di Kurt Cobain), parlando apertamente di problemi condivisi da moltissime persone negli Usa di quegli anni (come li chiamava lei, «the United States of Depression») e anche negli anni successivi, nonostante il Prozac che dà il titolo al libro sia poi passato di moda.

Come ha scritto Guia Soncini, la genialità di Elizabeth Wurtzel, morta il 7 gennaio, a soli 52 anni, per le complicazioni dovute a un cancro al seno, è stata quella di essere «sempre lieve nella drammaticità, frivola dov’era ovvio aspettarsi la lagna». Come affermò lei stessa in un articolo uscito sul New York Magazine nel 2018, il suo libro ha cambiato il modo in cui le persone considerano la malattia mentale e ha cambiato il modo in cui gli editori considerano i memoir. Elizabeth Wurtzel è stata forse una delle prime a generare nelle sue giovani lettrici sensazioni difficili da confessare: oltre al sollievo di riconoscersi, anche una strana invidia, un insano desiderio di emulazione, e un imbarazzante rabbia nei confronti di quelle come lei, le ragazze che vivono tutto intensamente e si sentono al centro dell’universo – anche quando si odiano, tutto e tutti continuano a girare intorno a loro – ma soprattutto, riescono a diventare famose e a ricevere piogge di complimenti (e anche di soldi, magari) nonostante i loro problemi, semplicemente essendo loro stesse (non è forse quello che anche oggi invidiamo agli influecer?), ostentando emozioni e situazioni con cui molte di noi devono combattere ogni giorno, mandandole giù, andando avanti, senza mai riuscire a ottimizzarle e monetizzarle, per ricavarne qualcosa di profittevole.

Nata nel 1967, cresciuta a New York da genitori divorziati  – ossessionata dal rapporto problematico col padre, che a un certo punto si è perfino rivelato un’altra persona, e cioè il fotografo Bob Adelman, con un grande colpo di scena prontamente raccontato dall’autrice nel già citato articolo sul New York Magazine – Wurtzel ha studiato ad Harvard, ha scritto molti articoli (tra cui questo, con un bellissimo sottotitolo: «ho 45 anni e vivo come se ne avessi 25 da quando ne ho 15») e diversi altri libri, tra cui More, Now, Again (il sequel di Prozac Nation, in cui parla della sua vita dopo il successo e dell’approdo a un nuovo farmaco, il Ritalin) Bitch, con l’audace copertina originale in cui è nuda e fa il dito medio, e lo strano Creatocracy: How the Constitution Invented Hollywood, la sua tesi di laurea (a un certo punto si è messa in testa di voler diventare avvocato, e ovviamente l’ha fatto davvero), una dissertazione su come la legge sul copyright ha influenzato la cultura americana, sempre con la sua bella faccia stampata sulla copertina.

Le sue eredi e imitatrici sono state davvero tante, e una volta identificato il prototipo – forse incarnato, ancora prima di lei, dalla protagonista di La campana di vetro di Sylvia Plath (non a caso il New York Times Book Review la definì una «Sylvia Plath con l’ego di Madonna») – si rimane un po’ stupiti da quanto siano simili tra loro: da Cat Marnell a Melissa Broder, quella di So Sad Today, account twitter diventato raccolta di saggi (un’altra dichiarazione esatta e narcisista di Wurtzel: «sono diventata un hashtag ancora prima che esistesse Twitter»), sono donne accomunate dall’essere attraenti, estremamente performanti dal punto di vista intellettuale e professionale, circondate da una discreta quantità di amici e amanti (Marnell) o legate a un’altra persona da una relazione solida e intensa (Broder) e nonostante ciò profondamente depresse o dipendenti da svariate sostanze, proprio come molte altre donne.

Ragazze interrotte che, per usare una formula comune quanto insensata, «potrebbero avere tutto per essere felici» ma non lo sono (il problema è che continuiamo a pensare che “tutto” possa essere definito oggettivamente come una lista di caratteristiche comuni: e se il mio “tutto” ideale fosse composto da elementi completamente diversi da quelli di un’altra persona? Lo scrive qui la stessa Wurtzel: «Il viola di una persona per qualcun altro è indaco, per qualcun altro è blu»), e infatti in Italia, dove siamo famosi per tradurre male i titoli, Prozac Nation è diventato La felicità difficile. Il mio viaggio nell’inferno della depressione e ritorno (Rizzoli). Per fortuna il film del 2001 diretto da Erik Skjoldbjærg è riuscito a conservare il titolo dell’originale, pur perdendo il ritmo rapido, nevrotico della scrittura e soprattutto il tono autocompiaciuto, al tempo stesso irritante e irresistibile, perfettamente efficace nel rappresentare la voce di un’ambiziosa ventenne. Privato del vigore della penna di Wurtzel e affidato al broncio di Christina Ricci, l’atteggiamento narcisista della protagonista perde un po’ di fascino e diventa decisamente più drammatico e irritante. Ed è proprio per questo che, forse ancora più del libro, il film continua a conservare un certo potere “terapeutico”, e a far sentire meno sole tante ragazze, pronte a riconoscersi nella storia di Elizabeth Wurtzel.

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