Arriverà nella sale cinematografiche italiane il 15 gennaio 2026, dopo aver raccolto il plauso della critica alla Mostra del cinema di Venezia.
Quando a giugno è iniziata a circolare la notizia del Dracula di Luc Besson, con tanto di trailer, la domanda è sorta spontanea: «Ma ce n’era davvero bisogno?». D’accordo, viviamo nell’epoca dei remake e dei sequel; d’accordo, dopo Poor Things l’estetica del period drama è tornata definitivamente di moda e un certo accanimento era prevedibile (vedi Wuthering Heights di Emerald Fennell) ma in fondo, ci sentivamo ancora sazi del Nosferatu di Robert Eggers, uscito alla vigilia del 2025: un Dracula iper-concettualizzato ed evanescente, fedele al romanzo di Bram Stoker e reinterpretato in tutta la sua decadenza fisica e morale.
Poi, il film di Besson è arrivato in sala: prima in Francia, poi nei Paesi Bassi, in Serbia e, a ruota, in Russia. E da lì, le sue immagini si sono riversate su Instagram e TikTok, montate sotto i brani di Enya e Billie Eilish, e subendo lo stesso effetto virale delle riprese del Diavolo veste Prada 2: tutti a pensare «Okay, ho praticamente già visto il film». Ora che la stessa cosa sta iniziando ad accadere anche in Italia, sembra chiaro che il punto sia che questo film ci ha fatto ricadere in tentazione, nonostante psicologi e sessuologi da anni ci stiano facendo riflettere sulla tossicità del concetto di “anima gemella”. Un’operazione di marketing perfettamente riuscita e irresistibile.
Dracula goes viral
Le clip virali sono essenzialmente tre. Nella prima, Caleb Landry Jones (l’ex Dogman, il penultimo film di Besson) nei panni di Vlad III di Valacchia e Zoë Sidel, alla sua prima prova da protagonista (in quelli di Elisabetta-Mina), vanno di contatto visivo dagli estremi di un salone vittoriano, mentre l’ultraeditata “Caribbean Blue” di Enya spinge fortissimo. Nella seconda, la sovrapposizione delle tante versioni di Dracula nei secoli, che “agita” la boccetta di un profumo misterioso (creato da lui stesso nei viaggi in India e in Italia), che, nella visione di Besson, è lo strumento del potere che gli consente di eccitare, ammaliare ed essenzialmente assoggettare chiunque lo circondi (soprattutto le donne). Parte così una sorta di flash mob di persone ipnotizzate che, stavolta, ha fatto ripescare agli utenti The Diner , il brano del terzo album di Billie Eilish.
Per il regista è la scusa per rappresentare, in una manciata di minuti, il viaggio di Vlad attraverso i secoli, tra cambi di stile, abiti ed epoche (dal Quattrocento alla Belle Époque), alla ricerca di potere, ricchezza e influenza. Ma solo per arrivare a Elisabetta-Mina. Anche quando Vlad tenta il suicidio gettandosi dalla torre più alta del castello in scene montate a ripetizione, una dietro l’altra, incapace di comprendere che Dio lo ha rinnegato e lo ha privato del “dono di morire”, è evidente che questa affinità con il linguaggio dei contenuti social non sia casuale. Besson sembra aver montato il film con la piena consapevolezza di come oggi si fa breccia nell’immaginario collettivo: creando una cornice attorno a certe scene che, anche se isolate dal resto, mantengono un proprio ritmo, una propria trama e una propria leggibilità.
Un microdosing di contemporaneità che rimbalza sull’antico desiderio d’amore eterno, quello di Jane Austen o di Charlotte Brontë, che toglie l’appetito, il sonno e la lucidità, spingendoci a pensare “è così che l’amore dovrebbe essere” e poi a chiederci “l’ho mai vissuto davvero?”. Altro che demonio, archetipo della repressione sessuale o guerriero dell’Ordine del Dragone a difesa di Dio e della sua Chiesa: il Vlad di Besson è “solo” un uomo innamorato che vive in funzione del suo “unico e vero amore”, Elisabetta. Un fatto nuovo nella storia cinematografica dedicata a Dracula, palese fin dai primi minuti del film, quando ci mostra la quotidianità tenera, passionale e giocosa della giovane coppia (dove emerge anche la vera chimica tra i due attori), infranta dall’arrivo dell’esercito dell’Impero Ottomano e dalla partenza di Vlad per il campo di battaglia. «È un approccio totalmente romantico», dice Besson. «Nel romanzo di Bram Stoker il lato sentimentale non è mai stato davvero esplorato». E l’intuizione, a pensarci bene, è geniale (commercialmente). Coppola fu il primo a cogliere il potenziale romantico della storia di Bram Stoker, ma non lo rese mai davvero centrale.
C’era una volta in Valacchia
Qui, invece, accade a tal punto da rendere gli altri personaggi superflui e quasi patetici, volutamente. Van Helsing non è più ritratto come il cacciatore eterno antagonista di Dracula, ma come un prete che tenta di redimerlo; Jonathan, il futuro marito di Mina, appare subito per ciò che è: un uomo convenzionale, incapace di reggere il confronto con il Conte. Renfield, il servo di Dracula che nel film di Coppola era interpretato da Tom Waits, diventa qui una vampira folle e (perdonate il gioco di parole) svampita, interpretata da Matilda De Angelis, ossessionata da due cose solo: il sangue e la ricerca di Elisabetta-Mina per conto del suo maestro. Tutti, però, vengono riscritti all’interno di una fiaba gotica, in cui Besson rifiuta apertamente l’etichetta di horror. La carica erotica tra Vlad ed Elisabetta è infatti il vero motore narrativo: palpabile, quasi osmotica. Quando sono ancora in Valacchia, i compagni d’armi devono strapparlo con forza da lei: lo spogliano, gli fanno indossare l’armatura, gli mettono in mano l’elmo a forma di drago e, per tutto il tempo, non smettono mai di guardarsi. E quando Elisabetta muore, quella forza vitale lo abbandona del tutto. Vlad rinnega Dio, precipita nella disperazione, desidera morire. Ma, come in ogni fiaba romantica, ciò che lo trattiene dall’autodistruzione è la speranza: che Elisabetta possa rinascere in un altro corpo e che lui possa trovarla, pur non avendo il minimo indizio su dove né quando accadrà.
«Non è tanto Dracula ad affascinarmi, ma Caleb», ha dichiarato il regista. Per Besson, infatti, oggi Jones è l’attore che lo ispira di più e, a quanto pare, è stata proprio una chiacchierata con lui sul set di Dogman a fargli decidere di iniziare a scrivere il film. «È un talento straordinario, qualcosa che non vedevo dai tempi di Gary Oldman». E in effetti, Caleb è la rivelazione più grande del film: un Vlad umano, sensibile, fragile e allo stesso tempo demoniaco, capace di convivere con i propri opposti in modo del tutto nuovo, svincolato dalla performance dei suoi predecessori. «Detesto il termine horror», ha raccontato Jones. «Ne esistono tanti, ma, come ha detto Luc, questo non è uno di quelli. Non mi piace lo splatter e la violenza gratuita, e so che, quando lavoro con lui, prendiamo sempre un’altra direzione». Non devo preoccuparmi delle etichette. So in quali mani mi trovo: sarà sempre qualcosa di fantasioso, sincero, con un cuore. E proveremo a scavare più a fondo, cercando qualcosa di più umano.» Un fascino, il suo, che, come quello di Zoë Sidel, va contro il fenomeno dell’iPhone Face emerso negli ultimi anni tra gli attori: i loro sono volti conturbanti, imperfetti, segnati da pieghe ed espressioni reali, che li rendono inevitabilmente più vicini, più umani.
Non è un caso che tutto questo coincida con un’accoglienza più che positiva da parte del pubblico di un film che, comunque, a livello di ritmo generale ha i suoi difetti. Se da un lato il period drama, come dicevamo all’inizio, è oggi un genere attraversato dalle urgenze del presente, dall’altro Besson sceglie di tornare alla sua comfort zone per eccellenza (e di trascinarci con sé) in una fiaba in cui i personaggi non sono archetipi, ma semplicemente persone attraversate dai sentimenti. Una scelta che ha reso felici i romantici e, per un istante, ha concesso anche ai disincantati la libertà di crederci. E infondo, nessuno corre il rischio di farsi male.
