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L’oscuro fascino del Dalek, il ghiacciolo che colorava la lingua di viola
Non si può dire che fosse il più buono di tutti, ma era il gelato ideale per i bambini che un giorno avrebbero voluto provare l’effetto delle sostanze chimiche non propriamente commestibili.
Molto prima del rinascimento psichedelico e della moda della psilocibina a colazione, le giovani esploratrici di stati alterati di coscienza si riconoscevano grazie a una macchia viola sulla lingua. Era il marchio di appartenenza al culto del Dalek, il ghiacciolo ripieno di coloranti attivi spacciati per estratti di mirtillo e fragola. Da piccola non sapevo che il nome del Dalek fosse ripreso da quello dei grotteschi nemici mutanti del Dr. Who (la serie di fantascienza inglese nata negli anni Sessanta), a loro volta ispirati ai nazisti. Se lo avesse scoperto mio padre, ebreo che aveva fatto la Resistenza, il Dalek non me lo avrebbe più comprato. Mia madre, molto più giovane e priva di qualsiasi coscienza politica, avrebbe invece continuato ad allungarmi le lire per il Dalek anche più volte al giorno, pur di levarmisi di torno e potersi rollare un’altra sigaretta addizionata di erba sul lettino in riva al mare, sorseggiando una bottiglia di vino bianco ghiacciato insieme alle sue amiche languide dai piedi con le unghie smaltate.
Nei primi anni Ottanta al bar dello stabilimento sulla spiaggia – nel mio archivio disfunzionale della nostalgia al primo posto c’è l’Albos di Fregene, forse perché aveva la piscina, i pomodori col riso e il Dalek–, sul manifesto pubblicitario dei confezionati Eldorado c’erano le illustrazioni di Jacovitti. Si poteva fare finta di prendere tempo per scegliere il gelato e fissare uno dei personaggi (il mio preferito era il pesce antropomorfo a righe, senza pinne o braccia ma con il nasone e i piedoni) fantasticando di vederlo volare sulla sabbia con un saltino. Senza saperlo, coltivavo il passaggio fondamentale tra l’esercizio dell’immaginazione e la fuga dalla realtà. Davanti a Jacovitti fingevo sempre indecisione, poi indicavo lui, il Dalek, che sul cartellone era l’unico ad avere una faccina disegnata sullo stecco. Mi sembrava un segno inequivocabile di magia potenziale. Gli altri ghiaccioli ripieni, il Lemonissimo e il Magic Cola, non avevano fascino o mistero. Li ho presi qualche volta, come ripiego, non nascondevano sorprese. Il Fiordifragola, con il suo interno denso di crema di latte, metteva in crisi il mio bisogno compulsivo di catalogazione coerente nelle questioni dolciarie. Non posso dire che il Dalek fosse il più buono di tutti, ma il suo fascino oscuro lo rendeva il gelato ideale per le bambine senza pace come me, che un giorno avrebbero voluto provare l’effetto delle sostanze chimiche non propriamente commestibili. A sette anni mi incantava l’idea di un ghiacciolo che aveva come attrattiva principale un effetto collaterale, il fatto che macchiasse la lingua in modo tenace. Mi sembrava di far parte di un gruppo di iniziati. Ragazzini e ragazzine che tenevano più all’avventura che alla salute, amanti di Lucignolo, Gian Burrasca e Pippi Calzelunghe; attratti, negli anni successivi, da feste illegali e piaceri malsani.
Ma un giorno è successo qualcosa. Era un’altra estate, sempre dei primi anni Ottanta. Sono arrivata in spiaggia, mi sono cambiata e sono andata subito al bar, ho guardato il manifesto pubblicitario: la figura del Dalek era stata coperta da una croce di pennarello dal tratto spesso, o forse qualcuno ci aveva attaccato sopra un adesivo color bianco sporco, come un inutile cerotto sulla delusione. Era finita, il Dalek, con i suoi coloranti indelebili, era stato vietato e ritirato dal mercato. Oggi, se ci penso, non ricordo minimamente che sapore avesse. Probabilmente a quel tempo ci sono rimasta male, poi sono passata al croccante all’amarena. Non è mai stato vero amore. Lo usavo come copertura, mentre mi esercitavo nell’arte del languore e aspettavo di essere ammessa alla corte di mia madre e delle sue amiche al thc e vino ghiacciato.