Il lavoro sarebbe un posto migliore se la smettessimo di scrivere mail sgrammaticate

La comunicazione sempre più veloce genera sciatterie e "microlingue". Divertente nel privato, ma cosa succede quando la poca attenzione è una costante nel mondo del lavoro?

17 Novembre 2025

In quanto scrittore, e quindi affetto da una dose certamente superiore alla media di mitomania o delirante volontà di essere ricordato dai posteri, ho spesso pensato a come si presenterebbe un mio volume di corrispondenza con amici e amiche, un epistolario dell’epoca della messaggistica istantanea. Proseguo, da diversi anni, uno scambio di email lunghe e ponderate con un amico (scrittore, naturalmente: forse ha accettato per i medesimi motivi), ma per il resto le comunicazioni da includere in un volume di scambi contemporanei dovrebbero essere soprattutto prese da Whatsapp, Instagram, Slack, e molte mail di lavoro. Se ci penso, è facile rendermi conto che la lingua con cui scrivo queste comunicazioni non è affatto una lingua con cui vorrei presentarmi nel “cielo dei poeti” o anche soltanto al pubblico che normalmente legge i miei libri: io con gli amici, nella messaggistica istantanea, sono tra quelli che non si curano dei refusi. Scrivo male perché i miei pollici non sono né rapidi né precisi. Sono la versione umana di quel meme che dice: «I’m 40 years old. I don’t fix typos in messages anymore. I’ll text someone “Whatr you dong tonufght” and that’s on them to figure it out» (la tradurrei così: «Ho 40 anni. Non correggo più i refusi nei messaggi. Scriverò a qualcuno “Chr fsi tsasera” e dovranno capire loro cosa c’è scritto»).

Sul lavoro, al contrario, mi sono accorto che le cose vanno molto diversamente: le mie email sono formali, dotate di tutti gli orpelli necessari, un bel “ciao” iniziale, che si estende “a tutti e a tutte”, di tutte le virgole nei punti giusti, degli a capo, delle doppie spaziature tra paragrafi e di una buona serie di punti esclamativi per trasferire il giusto entusiasmo – soprattutto nel “grazie!” finale. Quindi ho ragionato un po’ su questa discrasia, diciamo pure questa differenza tra comunicazione pubblica e comunicazione privata, e sulle diverse filosofie in gioco. Quando, insomma, è accettabile o forse anche significativo concedersi delle sciatterie comunicative, e quando, invece, non lo è. È il mio articolo, quindi inizio io: per dire subito che la sciatteria nelle email lavorative, che siano anche tra colleghi che si conoscono da dieci anni, non è accettabile. È un discorso pieno di incoerenze e contraddizioni questo sulla lingua e i suoi usi, le soglie di tolleranza e i confini della maleducazione. È per questo che è anche un discorso divertente e ampio, a cui va fatta una premessa necessaria per non farlo diventare anche un discorso classista: coinvolge persone che hanno avuto la fortuna di poter sfruttare tutti gli strumenti educativi per scrivere con una proprietà di linguaggio discreta, media o alta.

Per esempio, io ho una grande pazienza con i refusi: capitano, sono involontari, a volte hanno pure un effetto divertente. Non ho pazienza, al contrario, con la mancanza di punteggiatura. Saltare una virgola, saltarne due, ma anche un punto, un trattino o un due punti, insomma scrivere una frase come se fosse un lungo esercizio di apnea, è uno dei miei trigger principali. Altri trigger sono sempre legati ai segni di punteggiatura: “po’” scritto con la o accentata, per esempio; le lettere invece accentate utilizzando l’apostrofo, anche se maiuscole. Il motivo è semplice: se non stai prestando cura al tono di voce con cui il destinatario sarà costretto a leggere la tua email, non stai prestando cura al destinatario stesso. La sciatteria grammaticale si trasforma allora in sciatteria interpersonale.

Ho chiesto a un po’ di persone, anche fuori dal giro di giornalisti e scrittori, come vivono loro questo argomento, e le risposte sono state tutte abbastanza simili. Alice, che fa la giornalista e ha 40 anni, ama anche lei molto i refusi. Mi scrive: «Per me lasciare la lingua sgarrupata o usare qua e là abbreviaz è una cosa di assoluta intimità e carineria. È anche dire agli altri che non ti prendi così sul serio. A volte esagero e i messaggi non si capiscono al 100 per cento, il che complica soprattutto i flirt. A me nei messaggi privati coi cari piace tenere anche uno stile un po’ senza punteggiatura: anche questo moltiplica il rischio di fraintendersi ma è come parlarsi in modo rilassato, senza troppi formalismi. Alcune mie amiche dicono che ho una microlingua». Sono d’accordo: il lessico familiare migliora i rapporti, è anzi una forma di intimità in più. Continua: «Viceversa sul lavoro per me è molto necessario comunicare in modo molto professionale, e curare specialmente il tono delle comunicazioni scritte. Non mando mail con scritto “ciao riesci a caricare il pezzo al volo?” o mail col testo nell’oggetto».

Lucia, di 37 anni, che fa l’avvocato in uno studio internazionale: «Non ho il minimo dubbio che l’ortografia corretta sia fondamentale. Non è soltanto un segno di rispetto per la persona, per il suo tempo, per il progetto a cui vi state dedicando. La sciatteria, gli errori, il dire “non importa, tanto è una comunicazione così informale e veloce” lo trovo inaccettabile. L’informalità è qualcosa di diverso dalla correttezza formale». Giacomo, traduttore: «Quando capita con gli amici, io non bado a come scrivono gli altri. Mentre nelle situazioni professionali non direi che lo trovo grave, ma di sicuro mi fa pensare qualcosa della persona che lo fa. Una mancanza di attenzione, forse, che potrebbe essere la spia di un modo sciatto di lavorare in generale». Fiammetta, consulente: «Anche se è un messaggio intimo a qualcuno che sento tutti i giorni non ce la faccio a lasciare i refusi perché mi sembra che non do valore a quello che scrivo e a chi lo sto scrivendo, forse sono troppo solenne? Forse sì ma non ho così tante chat aperte da poter giustificare qualche tipo di pressapochismo».

Tutte queste persone hanno trenta-qualcosa anni, a volte quaranta, quarantatrè al massimo. È una questione generazionale? Dal mio minuscolo osservatorio, l’età c’entra, ma non spiega tutto. In cosa: nel rispettare le regole più basilari di buona creanza ed educazione ortografica. Scrivere una mail senza virgole mi sembra una prerogativa di chi è nato prima degli anni Novanta, ma tendenzialmente prima della metà degli Ottanta. È un’attenzione che non si spiega con le capacità ortografiche (le scuole un tempo erano migliori e severe, dice l’adagio) ma con, piuttosto, un’attenzione empatica agli effetti della comunicazione. Un dettaglio, ancora: anche l’utilizzo di due formule apparentemente di cortesia come il “ciao” e il “grazie” può diventare una forma non di gentilezza, ma al contrario di arroganza e sciatteria. Quando non sono seguite o precedute da punteggiatura, come suggeriva Alice prima. Scrivere: «Ciao mi mandate il documento tal dei tali grazie» non è ok. Se il perché non l’hai capito già, come diceva quel cantante, è difficile spiegare, e sarà difficile capire.

È pur vero che, dirà qualcuno, almeno in questo caso lo si è utilizzato, il “ciao”. E però io, da amante della formalità non in quanto orpello novecentesco ma sintomo di attenzione, sono anche un appassionato sostenitore della vituperata formula del «I hope this email finds you well», che su Instagram e nella cultura memetica ha generato migliaia di divertentissimi versioni del meme “how your email finds me”, tutte raffiguranti scene di disperazione, devastazione e altre miserie. In italiano prediligo la versione interrogativa, un “come stai?” a cui non è necessario rispondere, un po’ come il ça va francese o il qué tal spagnolo. Funzione: psicologica, di ammorbidimento della richiesta successiva. Possiamo ammettere che 97 email su 100 siano scritte, nell’ambito del lavoro, per annunciare scocciature e altro lavoro – appunto, scocciature: perché non usare un po’ di cortesia cosmetica, anziché nessuna?

Oltre che una questione generazionale, si potrebbe pensare che la poca cura comunicativa sia un problema che aumenta con il salire del ruolo. Facendo una ricerca approfonditissima (sto scherzando) su Quora, ho trovato la domanda: «Perché le email dei dirigenti sono molto dirette, ma hanno mancanze di grammatica e sintassi? Gli insegnano a scrivere così?». Purtroppo, sappiamo che le risposte di Quora sono ormai nelle mani delle IA, e la prima reazione che si legge è quella di un bot che spiega, in 15 precisi punti, perché i dirigenti non hanno in realtà fatto alcuna scuola per scrivere male, ma sono il tempo, le pressioni e le priorità ad averli resi così. Così come? Così: persone che scrivono male, con tutto quello che ne consegue e che significa. Internet è però anche pieno di saggi brevi, firmati da consulenti di marketing e altri tipi di business, pronti a spiegare quanto le email scritte male abbiano determinate conseguenze psicologiche su chi le legge. E quindi contribuiscano a creare un ambiente più frustrato sul lato umano, ma anche che siano controproducenti per il guadagno e la crescita. Si può migliorare anche solo per guadagnare, e non soltanto per il bene dei colleghi. Era anche questa una questione intuitiva, senza bisogno che ce lo dicessero dei saggi. E poi c’è sempre tempo per uscire dal lavoro, andare al bar e scrivere alle amiche: “Chr fsi tsasera?”.

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