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Com’è cambiata la pausa pranzo

C'è chi la vorrebbe ridurre, chi ne resta cultore, una piccola indagine tra schiscette e buoni pasto.

di Luca D'Ammando

Una caffetteria all'interno di una fabbrica Ford a Warley nel 1964 (Photo by Evening Standard/Getty Images)

Durante le ultime trattative per il rinnovo del contratto dei dipendenti statali a un certo punto si era ipotizzato di ridurre la pausa pranzo sotto i trenta minuti. Ipotesi durata il tempo di qualche titolo sui giornali e subito bocciata al grido di “Toglieteci tutto ma non la pausa pranzo”, possibile manifesto per gli statali, o forse più in generale per gli italiani. Eppure la tendenza negli ultimi anni sembrerebbe cambiata. I sondaggi e le ricerche di mercato dicono che si mangia di corsa, sempre con un occhio al cellulare o davanti alla scrivania. Sempre più uffici hanno una stanza adibita a cucinino o comunque un microonde per scaldarsi quello che si è portato da casa. Si sarebbe insomma compiuto il passaggio dal pasto comune al pasto solitario. A parte alcuni casi di grandi gruppi e aziende illuminate, l’immagine della mensa rimanda a uno scenario novecentesco. Lo racconta bene la mostra multimediale Pausa pranzo. Cibo, industria, lavoro nel ’900, ospitata alla Fondazione Dalmine fino al 30 settembre, con fotografie, filmati e documenti di archivio che raccontano un mutamento sociale lungo un secolo. Mangiare come atto e fenomeno politico. Dalla “schisceta” (diventata poi schiscetta) – quel contenitore di alluminio in cui operai, non potendo permettersi il ristorante, “schisciavano” (cioè schiacciavano) il pranzo da portare al lavoro – alle prime mense divise tra operai e impiegati, fino al superamento della distinzione di censo e di classe tra colletti bianchi e colletti blu, sorta di rivoluzione sociale  realizzata tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Oggi invece la grande distinzione sociale sembrerebbe essere tra chi ha dei colleghi in carne ossa con cui condividere il pranzo. In una frammentazione lavorativa in cui anche la sede fisica del lavoro non è più così necessaria, viviamo una sorta di precarizzazione della pausa pranzo.

Volendo fare una piccola indagine tra conoscenti e amici per capire se davvero il pranzo sia diventato un fenomeno solitario, mi ritrovo a parlare soprattutto con giornalisti. Il giro di telefonate inizia da Francesco Caldarola, autore televisivo, da alcuni anni alle prese con trasmissioni della Rai. A domanda sulla pausa pranzo risponde d’impeto: «Io sono un cultore assoluto, l’ho sempre fatta in ogni fase della mia vita lavorativa». E allora ci facciamo raccontare queste fasi: «La prima quando ero all’Ansa a Genova. Se avevo il turno spezzato avevo tre ore di pausa, mi mettevo il costume sotto la camicia e la cravatta d’ordinanza e andavo al mare e magari mangiavo lì insalate o simili. In alternativa, come la gran parte dei cronisti da battaglia, sceglievo il Ristorante Europa, in Galleria Mazzini, frequentato da padroni e politici. Noi più sfigati al bistrot, loro al ristorante vero e proprio. Ci sono racconti mitici di partite a scopone e ricordo ad esempio quando Riccardo Garrone si presentava con il cervo che aveva cacciato per farlo cucinare e il cameriere lo faceva assaggiare anche a noi giornalisti». La seconda vita a Milano, da autore delle Invasioni barbariche. «Mangiavamo in zona Tortona, bistrot con nomi evocativi tipo La latteria, posti per designer, giornalisti, niente bancari per intenderci. La terza vita a Roma. Prima gli anni a Prati, in quel mondo straordinario sospeso tra Settembrini e Cacio e pepe. Ora sequestrato a Saxa Rubra». Per chi non avesse presente, il centro Rai di Saxa Rubra è isolato, Roma Nord inoltrata, una stazione del trenino, capannoni e campi verdi. Qui ci sono due bar e una mensa che Caldarola descrive con toni fantozziani: «Quelli bravi conoscono tutte le combinazioni giuste – tra primo secondo contorno dolce e acqua – per mangiare tanto e spendere poco, segreti a cui io non ho mai avuto accesso. Scelgo sempre di mangiare un’insalata o un secondo, spendo tra i sei e gli otto euro». L’alternativa alla mensa è uscire e andare a mangiare al ristorante, come il leggendario Pagus o Il casale dotato di veranda esterna. Oppure farsi portare il cibo in redazione: «Esiste anche una chat interna chiamata “Pinsa romana” ma, data la mia idiosincrasia per i carboidrati, la ignoro volutamente». Nella redazione di Agorà per cui lavora ora Caldarola su una trentina di persone meno di un terzo pranza in ufficio. Durata media della pausa pranzo: 40 minuti.

Un set di “schiscette” del 1953 (Chaloner Woods/Getty Images)

Rimane quindi la grande differenza tra chi ha la mensa e chi no. Se n’è accorto ad esempio Giuseppe Latour, passato da pochi mesi dalla redazione romana a quella milanese del Sole 24 Ore. «A Roma i dipendenti del Sole hanno i buoni pasto e allora in molti si portano il pranzo da casa». Un po’ per risparmiare e un po’ perché la zona, Termini, è parecchio complicata se si vuole mangiare qualcosa di accettabile senza spendere molto. A Milano, nella sede di via Monte Rosa – 2.800 metri quadrati condivisi con Price Watherouse Coopers, progetto di Renzo Piano in un trionfo di vetro, trasparenze e vegetazione – c’è una mensa luminosa al piano terra animata da umanità varia perché, oltre ai dipendenti del Sole, è frequentata da autisti della Atm che hanno la sede lì vicino e dai lavoratori della Price Watherouse. Le tre categorie non s’incrociano spesso: gli autisti mangiano alle 12-12,30, quelli della Price Watherouse all’una, quelli del Sole dall’una e mezza in poi. Ma può capitare di vedere il direttore Guido Gentili (frequentatore della mensa al contrario del predecessore) al tavolo accanto ai macchinisti dell’Atm. Per i dipendenti un pasto completo costa un euro o un euro e venti. «Quasi nessuno mangia da solo», racconta Latour, «e comunque è quasi impossibile anche volendo, trovi sempre qualcuno che si unisce al tuo tavolo. In genere si creano gruppetti di tre-quattro persone delle stesse redazioni». Per il caffè c’è un bar al piano superiore. «Ma prima aveva i prezzi calmierati, tipo 30 centesimi a caffè, ed era un tripudio di colleghi che offrivano. Oggi che i prezzi si sono normalizzati s’è svuotato parecchio». Durata media della pausa pranzo al Sole: 40 minuti.

A Torino invece La Stampa ha la mensa in comune con altre aziende, oltre che con la redazione locale di Repubblica. È sotterranea e, nel tentativo non riuscitissimo di evitare la classica atmosfera tristissima, ha arredamenti colorati, con poster alle pareti di Totò, Aldo Fabrizi e simili. Per chi non vuole la mensa c’è un ristorante-pizzeria napoletano lì vicino, è convenzionato e mangi con 1,30. «Però quando dici che sei della Stampa ti riservano un trattamento differente dai clienti normali», racconta Francesco Olivo, romano trapiantato a Torino, «tipo quando vai con Groupon. Però sono sempre sorridenti». 

Spostandoci a Roma, in una redazione più piccola e scapigliata, quella del Foglio, Simonetta Sciandivasci ci racconta la pausa pranzo della redazione. «Quando lavoravo da casa mi capitava quasi sempre di mangiare davanti al computer, qui solo il primo giorno, perché non conoscevo le dinamiche. Quasi nessuno mangia in ufficio. Si scende sempre, a gruppi, nessuno mangia da solo. Una volta ogni dieci giorni si pranza tutti insieme». C’è anche un cucinino, «con un frigo sempre pieno di yogurt e gelati». La zona è complicata, via del Tritone, turismo esasperato, qualità scarsa e prezzi alti. «Abbiamo due o tre posti, spesso andiamo in un forno che fa anche primi e insalate, ma non insalate di quelle tristi. Quando vogliamo esagerare un hamburger da T-Bone station». Il caffè sempre nello stesso bar: «Il settebello, su via del Tritone, un posto sanguinolento, dove una quindicina d’anni fa una donna è stata stuprata dal proprietario e la donna che aveva soccorso la poverina è stata poi massacrata per strada a distanza di poco tempo. Ma ora è cambiata gestione, eh». Durata media della pausa pranzo al Foglio: un’ora. Finita la telefonata, dopo qualche ora, Simonetta richiama per aggiungere: «C’è un altro punto da considerare. La questione è che la pausa pranzo è l’appuntamento perfetto. Tu uno che ti piace moltissimo lo fai venire con te in pausa pranzo e dopo un’ora hai la scusa per andare via e sei libera. “Resterei tantissimo a prendere una cheese cake con te, davvero, ma la mia pausa pranzo è finita, mannaggia”. E addio».