Stili di vita | Società
Fare la fila è diventato bello
Un tempo usanza invisa a tutti gli italiani, negli ultimi anni la coda è diventata un rito collettivo, una maniera con la quale dire di essere al posto giusto al momento giusto. Anche per ore.
C’è un momento di Dunkirk di Christopher Nolan (2017) che mi è rimasto impresso per una ragione particolare. Per chi non lo ricordasse o non l’avesse visto: è il 1940, è appena cominciata la Seconda Guerra Mondiale e quel che resta dell’esercito inglese sorpreso e sconfitto dai nazisti è in rotta su una spiaggia in Francia. Oltre 300 mila persone aspettano di essere evacuate via mare, ma le barche non si vedono ancora neppure all’orizzonte. Le forze tedesche di terra incombono e alcuni aerei nemici volano già bassi come avvoltoi e sottopongono a continui bombardamenti le forze inglesi. Ecco, quello che mi colpisce parecchio è che gli inglesi sono in fila. Tante file lunghissime decine e decine di metri. Certo, scappano quando arrivano le bombe, ma poi si rimettono in fila e aspettano il proprio turno. Quando l’ho visto ho pensato che Nolan barasse, che si era preso la licenza di inventare una scena che restituisse una disciplina anche un po’ fine a se stessa, ma non è così. Ci sono le foto che lo documentano e gli inglesi facevano davvero la fila. È vero, quello degli inglesi che fanno la fila diligentemente anche quando sono in due è un luogo comune e se, con un esercizio di fantasia, immaginassimo dei soldati italiani che, arrivando a Dunquerque, si presentassero domandando: “scusate, chi è l’ultimo?”, non faremmo altro che cedere agli stereotipi, perché le cose stanno cambiando e, almeno a me pare, le code piacciono sempre di più.
Una volta si diceva che, per mangiare bene, bisognava guardare dove parcheggiavano i camionisti, adesso, nel senso comune, le file ordinate hanno sostituito i tir parcheggiati. Chi vede la coda non scappa nel primo locale lì accanto purché non ci sia da aspettare, ma anzi la considera una garanzia. Se non di bontà del cibo, quantomeno di bontà dell’esperienza. Non si spiega, altrimenti, che, per esempio, a Milano, in poche centinaia di metri ci sia quotidianamente una coda per comprare la schiacciata dell’Antico vinaio, una per sentirsi dire “con mollica o senza” e prendere il panino, una per i panzerotti di Luini. E, durante il Salone del Mobile, le stesse persone che avevano spesso migliaia di euro per viaggio e alloggio facevano duecento metri di coda per avere in regalo una tote-bag o cinquanta metri per un Campari gratis.
A Napoli si fanno code per la limonata “a cosce aperte”, code di ore per la pasta e fagioli di Nennella, code di ore per pizzerie che non accettano prenotazioni e si mangia a orari improbabili che, fino a qualche anno fa, sarebbero stati definiti con sprezzo “da tedeschi” pur di non mancare l’assaggio della prelibatezza del momento. Ma in ogni città italiana accade qualcosa di simile (peraltro spesso nelle varie succursali locali degli stessi locali). In certi posti ormai neanche più i proprietari accelerano i propri ritmi per servire quanti più clienti possibile, perché tanto sanno che fuori la coda c’è comunque. Perfino il mito del barista che accelera oltremodo ogni movimento pur di non perdere neanche un cliente sta svanendo, può prendersela comoda, tanto non va più via quasi nessuno per fretta.
E non vale solo per il cibo, ma per prodotti di qualsiasi tipo. Sembra ieri che le code per l’apertura dell’Apple Store con la ressa e i feriti suscitavano ilarità, scherno e articolesse sul consumismo e la tirannia delle merci, mentre adesso si fanno code civilmente per fumetti, borse, scarpe e prodotti di qualsiasi tipo, senza che alcuno faccia un plissé. E si fanno code non perché non ci sia abbastanza merce per tutti. Anzi, anche quando si sa che di un certo prodotto ce ne è in abbondanza si fa la coda lo stesso, per mostrare dedizione alla merce e affetto per l’inventor. “Centinaia e centinaia di persone davanti al temporary shop in zona Corso Como per festeggiare i 25 anni di One Piece”, titolava un giornale qualche giorno fa. Ma non perché arrivare prima degli altri offrisse un qualche genere di ricompensa, spiegava l’articolo. Anzi, chissà quante volte i manager chiederanno di organizzare eventi in spazi più piccoli del necessario giusto per poi potersi vantare che, per l’occasione, ci fosse la “fila fuori”. Anche in questo caso: non serve aumentare il personale o i metri quadri a disposizione, tanto non vanno via.
Si dirà che, probabilmente, in molte di queste esperienze ciò che ha cambiato tutto è l’instagrammabilità (o scegliete voi il social) dell’esperienza. Ma sarebbe riduttivo, perché non tutti quelli in coda condividono l’esperienza di turno sui social. Eppure lo smartphone conta comunque in questa nuovo rispetto della fila, ma forse più perché ha offerto qualcosa con cui riempire i tempi morti. Un quarto d’ora di coda all’ufficio postale è improvvisamente diventato un quarto d’ora utile per rispondere a un po’ di messaggi arretrati su Whatsapp. E così come ci sono matti che usano il telefono guidando la macchina, ogni tanto capita di vedere qualcuno che rallenta e si mette in coda proprio perché così può usare il telefono da fermo. La coda fornisce un tempo molto funzionale a essere riempito. E ha reso tutti più docili.
In un surreale film di Luigi Comencini del 1979, L’ingorgo, si immaginava uno spaventoso ingorgo sul raccordo anulare che bloccava talmente a lungo migliaia di persone al punto che queste cominciavano a fare conoscenza tra loro. Si innescavano così una serie di rapporti nuovi con questi nuovi vicini che, però, altrettanto rapidamente degeneravano. Chissà la mutazione antropologica che stiamo vivendo come farebbe reagire tutti in un caso del genere oggi.