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Chiara Ferragni e l’armocromia del pentimento

La shitstorm natalizia di cui è protagonista diventa l'occasione per istituzionalizzare anche in Italia la grigia (letteralmente) estetica della pubblica confessione e autoumiliazione.

di Laura Fontana

Una volta, mi pare su TikTok, ho letto il commento di un utente anonimo, raggelante nella sua crudezza ma a suo modo illuminante. Diceva: i social media rendono famosi quelli a cui piace essere umiliati pubblicamente. Non l’avevo mai vista in questo modo, pensavo alla gogna online come l’aggiornamento tecnologico di uno strumento medievale di punizione e controllo. Eppure, dimenticavo che uno dei maggiori successi letterari degli anni ’10 è stato Cinquanta sfumature di grigio, la romanticizzazione di una relazione basata sul controllo e la punizione, come fonte di eccitazione sessuale ma anche come stile di vita. E quindi non sarà un caso che il grigio torni come colore più usato dalle celebrità nei loro “video apologize”, quando il guaio combinato è particolarmente grave e la reazione del pubblico è così dirompente da richiedere qualcosa in più di un comunicato rilasciato via Instagram.

Dopo un decennio di shitstorm online, Chiara Ferragni ufficializza l’aesthetic per chi vuole farsi umiliare pubblicamente, cosa che consiglio di fare solo a influencer e celebrità con le spalle coperte, e che con il buzz online ci campano, o al massimo alle aziende quando proprio gli tocca. Sconsigliatissimo per gli utenti del tutto normali che dalla shitstorm hanno solo da perderci. Perdonate questa piccola deviazione accademica, ma per chi non lo sapesse, per “aesthetic” si intende lo stile che si può assumere online: nel corso degli ultimi anni è stata decodificata una lunga lista di aesthetic, ognuna delle quali ha il compito di far provare una specifica emozione. Ogni aesthetic, infatti, risponde a precisi parametri che non interessano solamente la parte relativa alla moda, ma si manifestano anche nella musica, nell’architettura e in ogni aspetto del design, fino alla scelta della palette di colori o del font. Elena Cecchettin, ad esempio, ha un’aesthetic che è un mix tra “witch aesthetic” e “dark gothic academia”, erroneamente scambiata dai boomer per vera satanista. Avere una aesthetic vuol dire che quella persona si rappresenta (online e a volte anche offline) in quella maniera; se ci si cala particolarmente in una aesthetic, cosa che succede spesso ai giovani alla ricerca di identità, si finisce anche per credere veramente ai dettami legati a quella aesthetic. Nel caso della witch aesthetic i dettami vengono dal femminismo performativo, in cui il patriarcato è l’entità malvagia che le streghe combattono.

Tornando invece alla public humiliation aesthetic, è chiaro che il riferimento storico sia Maria Antonietta sul patibolo, schernita dal popolo, col collo esposto: ella a quel punto dismette i colori sgargianti e le stoffe costose, dello splendore della gioielleria francese rimangono solo le ombre, le guance sono smunte, negli occhi c’è dolenza e nessuna lacrima solo perché si è già pianto troppo e non ne è rimasta nessuna. I capelli, una volta vaporosi, vengono raccolti in stretti chignon, e meglio ancora se un po’ sporchi: dimostrano che il pentimento è corporale e che la prostrazione è tale da rendere impossibile anche farsi una doccia. La palette è ovviamente sul grigio, al massimo un po’ di marroncino: prima di Chiara Ferragni erano venuti i golfini di Domenico Dolce e Stefano Gabbana, il maglione di Soumahoro, la felpa di Francesco Totti, ma anche la t-shirt di Mila Kunis (il “video apologize” era per aver causato dolore scrivendo una lettera in favore dell’amico Danny Masterson, condannato a 30 anni di carcere per violenza sessuale). Del video Kutcher-Kunis era grigio anche lo sfondo, che i detective del web avevano individuato come essere l’unico punto della casa che sembrava “da poveri”, cioè una piccola rimessa in legno vicino alla loro zona piscina.

Per Chiara Ferragni è stato più facile visto che la nuova content house Ferragnez è inesplicabilmente su tutti i toni del beige. Più difficile sarà stato capare dalla nuova cabina armadio un capo grigio e alla fine è saltato fuori questo cashmere (forse un Cucinelli) già nella storia della public humiliation aesthetic. D’altronde lei è ancella dell’algoritmo, sa che nel suo destino è previsto il sacrificio per la fama, il successo e il sentiment positivo. Stavolta ha voluto fare le cose in grande, battendosi metaforicamente il petto con reiterati “ma non basta”, e il milione di euro come le dieci Ave Maria, togliendo con una certa sprezzatura pure la limitazione dei commenti al post di scuse: se deve essere umiliazione pubblica, e allora che lo sia.