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C’è ancora domani è il ritorno a un passato di cui non sentivamo il bisogno

Gli incassi di Cortellesi hanno salvato il cinema italiano e il successo prosegue anche con l'arrivo in tv e in streaming. Ma il film rimane la prova della nostra grande passione per la retorica, il passatismo e la semplificazione.

di Francesco Gerardi

È da cinque mesi che il cinema italiano cerca di rispondere a una domanda, sempre la stessa: ma come ha fatto, Paola Cortellesi? Com’è possibile che un film che hanno già visto praticamente tutti – dal 26 ottobre 2023 a oggi i biglietti staccati sono quasi cinque milioni e mezzo, gli incassi al botteghino circa 37 milioni di euro – riscuota un tale successo anche all’arrivo in tv e sulle piattaforme streaming? Sicuramente c’entra la scelta furbacchiona di Netflix e di Sky di proporlo come film per la famiglia, come visione per il finesettimana pasquale. Ma non basta questo a spiegare certi numeri. Se per i dati di Netflix tocca come sempre aspettare i tempi di Netflix, quelli di Sky segnano già diversi record battuti: 1,3 milioni di spettatori hanno deciso di vedere o rivedere C’è ancora domani nel primo finesettimana di programmazione home video – il film è stato inserito nel palinsesto il 31 marzo – il miglior esordio su Sky da tre anni a questa parte, il miglior “film di Pasqua” dal 2015 a oggi. Un successo che rimane inspiegabile, al cinema come in tv.

Se è vero che Christopher Nolan con Oppenheimer e Greta Gerwig con Barbie hanno salvato il cinema mondiale, è vero anche che Paola Cortellesi con C’è ancora domani ha salvato il cinema italiano. Dei quasi 37 milioni di euro d’incassi hanno scritto e parlato tutti: è una cifra enorme, un successo di pubblico superiore a quello riscosso nel nostro Paese sia da Barbie che da Oppenheimer, per restare al presente; o da Avengers: Endgame e da La vita è bella, per fare il paragone con campioni d’incassi del passato. Ma il successo inspiegabile di C’è ancora domani si capisce davvero solo quando si scopre che il cinema italiano tutto, compreso quello fatto in co-produzioni straniere, ha incassato nel 2023 120 milioni di euro in tutto. Di questi, 37 sono la quota parte di C’è ancora domani: poco meno di un terzo. Se vi siete mai chiesti com’è possibile che il film di Cortellesi sia ancora in programmazione in diverse sale d’Italia, ecco com’è possibile. Gli ultimi a compiere un’impresa simile erano stati Checco Zalone e Gennaro Nunziante con la tetralogia Sole a catinelle, Che bella giornata, Quo vado? e Tolo Tolo, non a caso quattro degli otto film davanti a C’è ancora domani nella Top 10 dei maggiori incassi cinematografici della storia d’Italia. Gli altri sono alcuni dei più grandi blockbuster hollywoodiani che la memoria ricordi: il primo e il secondo Avatar, Titanic e Il re leone.

A parità di successo, c’è però una differenza tra Paola Cortellesi e Checco Zalone. I film di/con Zalone erano smaccatamente nazionalpopolari, tanto da essere passati pure per populisti (con il contributo fondamentale dei populisti stessi). L’apprezzamento per Zalone era dunque una difesa del nazionalpopolare, un rifiuto delle affettazioni da intellettuali e delle pretese di civismo che negli anni precedenti avevano ridotto il cinema italiano – con le eccezioni note e solite – all’irrilevanza. Uno dei fatti più interessanti che circondano il successo di C’è ancora domani è che è il film che (probabilmente) segnala un imminente cambio di paradigma. Si potrebbe dire la fine di un ciclo, consapevoli però che questo in Italia non significa il passaggio al ciclo successivo ma la ripetizione di quello appena finito. C’è ancora un domani è infatti il ritorno proprio a quelle affettazioni intellettuali, a quelle pretese di civismo dalle quali il cinema italiano ha così faticosamente cercato di allontanarsi negli ultimi 25 anni. Vi ricordate quando il successo di Lo chiamavano Jeeg Robot e di Veloce come il vento avevano convinto tutti che il futuro del cinema italiano fossero i film di genere? E vi ricordate quando l’entusiasmo per Perfetti sconosciuti aveva portato tutti a credere che in Italia ci saremmo messi a fare come in Francia, a girare film borghesi in cui la borghesia si ritrova attorno a un tavolo apparecchiato per discutere dei crucci della borghesia? Tutto dimenticato, tutto passato, tutto sbagliato: C’è ancora domani dimostra che una via italiana al blockbuster c’è, a quanto pare.

E qual è, questa via? La solita, verrebbe da dire. Cortellesi ha detto che l’idea per il film le è venuta ripensando ai racconti della Roma del dopoguerra che le faceva la nonna: «Nel suo cortile romano raccoglieva gli sfoghi rassegnati di molte donne maltrattate dai mariti padroni», ha detto. I nonni, feticcio italiano, ossessione transgenerazionale. Il passato, mondo fantastico che da solo sembra contenere e generare ed esaltare ogni fantasia nostrana. Con C’è ancora domani Cortellesi è riuscita d’altronde nella missione che Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti aveva fallito: convincerci che il passato sia da guardare con la stessa tenerezza e lo stesso affetto con il quale guardiamo le foto raggrinzite dei nostri nonni da giovani. Ingannarci ancora una volta, per l’ennesima volta, con la nostalgia per un tempo andato che sarà stato sì duro ma anche così speranzoso: meglio guardare indietro che guardarsi attorno, dunque. Ieri come oggi c’erano le donne maltrattate come Delia (il personaggio interpretato da Cortellesi) e i mariti padroni come Ivano (Valerio Mastandrea), ma ieri a differenza di oggi si poteva dire “c’è ancora domani”, appunto: il 2 giugno del 1946 doveva ancora arrivare, la storia repubblicana non era nemmeno iniziata, il sol dell’avvenire stava ancora nascosto dietro l’orizzonte ma i suoi raggi cominciavano già a colorare il cielo e scaldare l’aria.

È questa una forma di retorica talmente diffusa ormai in Italia da essere diventata una mitologia, un’epica. E con la mitologia, con l’epica si fa quello che si è sempre fatto: vi si cerca la soluzione, almeno un consiglio, anche soltanto la spiegazione delle questioni del presente. Il corpo di Giulia Cecchettin veniva ritrovato il 18 novembre del 2023, nemmeno un mese dopo l’arrivo nelle sale di C’è ancora domani. La politica nazionale, la cosiddetta società civile e dunque l’intera opinione pubblica hanno da quel momento deciso che un film ambientato nella Roma del 1946 fosse il modo migliore di spiegare e capire l’Italia del 2024. C’è ancora domani è stato proiettato nelle scuole come parte di una campagna di sensibilizzazione sul tema della violenza di genere; un imprenditore lodigiano ha acquistato personalmente 400 biglietti per il film che ha poi regalato a studenti della sua città; il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca ha lanciato un’altra campagna di sensibilizzazione – se solo si risolvesse quanto si sensibilizza, in Italia – che prevedeva seicento proiezioni del film appositamente per studenti delle scuole medie e superiori in sale di tutta la Regione; il Presidente del Senato Ignazio La Russa ha deciso di proiettare C’è ancora domani in Parlamento, per impartire pure a deputati e senatori la necessaria sensibilizzazione.

C’è ancora domani si è prestato così bene a questa campagna di ipersemplificazione. Volete capire questo problema complicatissimo? Guardate questo film in cui i pestaggi di un marito diventano balletti, in cui il sangue cola e si asciuga nello stesso momento, in cui i segni lasciati dallo strangolamento restano finché la musica che fa da colonna sonora al balletto non sfuma, in cui uno schiaffo è l’inizio di una scena omaggio alle espressioni di Chaplin e ai movimenti di Keaton, in cui la vita nella Roma di Rossellini scorre al ritmo della musica degli OutKast (inciso: quanto basse sono le aspettative, quanto rozzi sono i gusti se il più elementare inserto pop viene considerato cifra stilistica?). Si è prestato così bene perché era già una ipersemplificazione. Non solo dei temi che tratta (la violenza di genere, la società patriarcale, la persistente condizione di inferiorità nella quale le donne sono state e sono costrette: tutto si risolve con la tessera elettorale e la certezza che tanto c’è ancora domani) ma anche delle tradizioni cinematografiche alle quali si ispira: il cinema dei telefoni bianchi e i film neorealisti, su tutti. Che in C’è ancora domani vengono ridotti a mera estetica, a costume, trucco, parrucco, scenografia, fraintesi nell’essenza: sia il cinema dei telefoni bianchi che i film neorealisti parlavano del presente, furono l’invenzione di generazioni di artisti che pretendevano un modo tutto loro, tutto nuovo di raccontare tempi nuovi. Una cosa di cui il cinema italiano non è più capace, evidentemente.