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Non c’è più nessuna differenza tra la campagna elettorale e lo shitposting

Questa campagna elettorale resterà probabilmente nella storia come il momento in cui ci siamo accorti che il confine tra politica e meme ormai non esiste più.

di Francesco Gerardi

La campagna elettorale è ormai shitposting. Per chi non conosce il termine, il dizionario di internet definisce shitposting – noto anche come trashposting o, in certe autarchiche traduzioni, caccapostaggio – come «l’atto di usare un forum o una pagina social per postare contenuti di scarsissima qualità con il fine di aggredire, ironizzare o trollare». Oggi non esiste una definizione più precisa e sintetica, una descrizione più perfetta e onesta di questa per i contenuti politico-elettorali che vediamo apparire sui nostri schermi soprattutto nei giorni di campagna elettorale (dal punto di vista dei contenuti, c’è solo una differenza quantitativa tra il periodo di campagna e quello di quiete elettorale, però). Gli esempi sono troppi, quindi ha senso citare il più recente e il più noto: se non è shitposting il video di Roberto Vannacci, generale dell’esercito in aspettativa e futuro europarlamentare, che invita i suoi elettori a esprimere la loro preferenza per lui facendo «una decima», cioè una X, cioè il simbolo della Xª Flottiglia Mas, sul suo nome, se non è shitposting questo allora tocca cambiare la definizione di shitposting. «L’atto di usare un forum o una pagina social per postare contenuti di scarsissima qualità con il fine di aggredire, ironizzare o trollare», appunto.

In quel video di Vannacci uno shitposter nota pure altri dettagli e sono quei dettagli a fare la differenza, a dare la certezza che davvero di shitposting si tratta. La polo che Vannacci indossa, l’illuminazione del video, la goffissima sovrapposizione del suo busto e dell’enorme tricolore che gli sventola alle spalle. A prescindere dall’intenzione di aggredire, ironizzare o trollare, lo shitposting deve essere brutto. Esteticamente brutto, s’intende. Brutto in una maniera che permetta di percepire immediatamente la povertà dei mezzi – e quindi dell’intento: aggredire, ironizzare, trollare – di chi lo ha realizzato. Lo shitposting vero, quello originale, quello che è esistito prima che quel pezzo di Sam Greszes su Polygon lo intellettualizzasse ed elevasse a forma d’arte, non era una cosa pensata. Consisteva semplicemente nel postare tantissimi contenuti senza senso nel mezzo di una discussione che altri stavano facendo, fino a quando la discussione non veniva abbandonata dagli utenti o gli utenti non espellevano lo shitposter dalla stessa. Ancora una volta, spero per l’ultima volta, Vannacci: ai giornalisti che gli chiedevano un’opinione sull’identità di genere, lui ha risposto snocciolando i princìpi di una «identità di età». A quel punto la discussione è finita: ai giornalisti è rimasta soltanto la possibilità di mostrare le loro facce più confuse e come follow up question uno spaesatissimo «ma che c’entra?».

Raccogliere la quantità di momenti/contenuti shitposting che la politica italiana ha prodotto nell’ultimo mese è impossibile. Alle necessità di archiviazione e storicizzazione risponde comunque la splendida pagina Crazy Ass Moments in Italian Politics, biblioteca d’Alessandria in cui sono conservati tutti i tomi in cui si legge la discesa nel non senso del messaggio politico italiano. Qui è il momento di fare una distinzione: con altri impallinati spesso mi capita di tentare la ricerca del momento esatto, del contenuto preciso che ha fatto della comunicazione politica italiana un campo d’applicazione dello shitposting. C’è chi dice che tutto è cominciato abbastanza recentemente con una delle infinite gaffe di Luigi Di Maio, chi pretende sia riconosciuto il ruolo pionieristico di Silvio Berlusconi, chi invece azzarda che la shitpostizzazione di tutto sia cominciata quanto internet non era nemmeno immaginazione e Gianni De Michelis si faceva riprendere mentre ballava sulla pista del Bandiera Gialla di Rimini dopo la presentazione del suo ormai leggendario Dove andiamo a ballare stasera? Guida a 250 discoteche italiane. C’è un errore in tutte e tre queste ricostruzioni, però: quei politici, quella politica non voleva né essere né fare shitposting. È stata usata poi, rielaborata da altri, in questo senso, ma De Michelis, Berlusconi e Di Maio volevano essere presi sul serio anche nei loro episodi più ridicoli e surreali.

Facciamo un altro esempio. Quando, durante la campagna elettorale del 2008, Walter Veltroni approvò lo spot elettorale “I am Pd” (una cover di “Ymca” dei Village People, impreziosita da versi come «Cantiamo tutti insieme I am Pd / Senza Silvio ma / Neanche Dini perché / Una nuova stagione c’è» e da slogan fantasiosi come «Walter!» e «Vota!») non aveva alcun intenzione di contribuire alla ridefinizione del significato della parola “imbarazzo”. Lo stesso vale per “Meno male che Silvio c’è” («Dillo così / con quella forza / che ha solamente / chi è puro di mente / Presidente siamo con te / Meno male che Silvio c’è»): Berlusconi non voleva certo essere cringe a fini di rielaborazione memetica e quindi di presenza nei feed. Oggi invece Angelo Ciocca fa pure lui un video musicale elettorale («L’Europa è da svegliare / Basta insetti da mangiare»), con un green screen preso dal cassonetto della monnezza di una tv locale fallita e ballerine che seguono ognuna il proprio tempo e sa, Angelo Ciocca, che quello è un «contenuto di scarsissima qualità con il fine di aggredire, ironizzare o trollare». Lo scopo di quel video, al contrario di “Meno male che Silvio c’è” e di “I am Pd”, non è dire alcunché: è interrompere quello che gli altri stanno dicendo, sabotare la discussione in corso, iniziarne una il cui oggetto sia il video di Ciocca. Una discussione in cui tutti possono partecipare per aggredire, ironizzare o trollare a loro volta Ciocca, certo. Ma nell’epoca dell’attention span ridottissimo, un politico non può chiedere di meglio che essere presente nella consapevolezza – e quindi nel feed altrui – quel tanto che basta per rimanervi impresso: siamo qui a parlare del video di Ciocca, d’altronde.

Il meccanismo non è niente di nuovo, ovviamente. Ma la consapevolezza con la quale la politica inizia a manipolarlo sì, lo è, ed è forse la più grande novità nella comunicazione politica italiana degli anni Duemila. In parte si tratta di aver appreso la lezione data dagli unici politici della cosiddetta Terza Repubblica diventati cultura pop: Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Ma anche in queste innegabili storie di successo è esistito un momento di iniziale imbarazzo, di acerba goffaggine che solo grazie alla rielaborazione post post ironica di altri è diventata “fascino”: quando all’inizio Salvini indossa felpe geolocalizzate, si faceva foto circondato da gattini al gattile o da affettati in salumeria, si spogliava sulla copertina di Chi era serio, poi siamo arrivati noi a fare del suo evidente malessere in quelle circostanze la più formidabile base memetica della storia italiana, e poi è arrivato lui a godersi i benefici elettorali di quella che noi pensavamo fosse satira e invece era presenza e quindi popolarità. Lo stesso discorso vale per Meloni: era seria, serissima quando annunciava la tripartizione donna-madre-cristiana della sua identità nel discorso “Io sono Giorgia”. Lei era seria ma noialtri che di quel discorso abbiamo fatto una recurring gag a Propaganda Live e una canzone house no, non lo eravamo. Lei oggi continua a essere seria – noi di fare i brillanti ai suoi danni abbiamo smesso, invece – ma nel frattempo ha imparato la lezione: la sua autobiografia l’ha intitolata Io sono Giorgia e sui manifesti elettorali invita a votare per lei «scrivendo Giorgia» sulla scheda.

«Lo shitposting è la dimostrazione pratica dell’inefficacia delle parole come forma di comunicazione. Il suo senso sta esattamente nel non senso, nel suo approccio arbitrario e nichilista al linguaggio. Lo shitpost è una comunicazione che non è andata a buon fine in quanto il messaggio è volutamente incoerente», scriveva Erica Casale in un pezzo su Nero nel 2019. Cinque anni e una legislatura dopo, vediamo che la politica ha capito: i Giovani democratici hanno prodotto un video che riprende un format molto popolare tra Instagram e TikTok, in cui a un passante viene fatto lo sgambetto e mentre sta cadendo gli vengono piazzati addosso gli oggetti che il creatore del video vuole vendere, o i simboli che vuole diffondere (nel caso dei Giovani Democratici: una bandiera dell’Ue, manco del Pd, e volantini elettorali troppo piccoli perché si riesca a leggere che c’è scritto sopra). Forza Italia ha chiuso la sua campagna elettorale con il video di un ballo di gruppo, tra Boss delle cerimonie e Slumdog Millionaire, a Napoli. Giuseppe Conte ha invece intonato una versione acustica di “Parole parole” a Un giorno da pecora (e ha pure esposto orgogliosamente una sua foto con Khaby Lame, il creator che non ha mai dovuto dire niente per avere successo, forse la tendenza alla quale Conte aspira), mentre Stefano Bandecchi, fondatore dell’università Niccolò Cusano, sindaco di Terni e candidato con Alternativa Popolare, ha raccontato che da ragazzo la sua arte seduttiva consisteva nell’andare in discoteca e chiedere alle ragazze «Balli? Trombi?». In Piemonte, dove l’8 e il 9 giugno si vota anche per le elezioni regionali, il candidato di Forza Italia Matteo Doria ha prodotto una cover di “Gloria” di Umberto Tozzi che fa «Parla sempre con ardore / e al mercato rionale / te lo trovi in mezzo al sale /e scrivi Doriaaaaa». Parole, intese come parole, messaggi politici contenuti dentro tutto questo content? Nessuna. «Lo shitposting è la dimostrazione pratica dell’inefficacia delle parole come forma di comunicazione». Quello che un tempo era l’oggetto – la vittima – dello shitposting diventa alla fine esso stesso shitposting. Lo si è già visto succedere in uno degli episodi che hanno contribuito a istituzionalizzare la pratica: quello di un famoso gruppo Facebook dedicato al commento degli episodi dei Simpson, preso d’assalto dagli shitposter fino a quando gli amministratori non sono stati costretti alla resa. Oggi quel gruppo esiste ancora ma ha cambiato nome: si chiama Simpson Shitposting.

Ovviamente, la validità del discorso sull’inefficacia delle parole dipende. Ci sono parole che un’efficacia la conservano: stronza, per esempio. Che la sua stessa lezione Meloni l’abbia imparata lo dimostra il siparietto/trappolone con Vincenzo De Luca: «Presidente De Luca, la stronza della Meloni», detto in prossimità di microfono, a favore di telecamera, pregustando reach e engagement – già, anche la politica questo è, ormai – omaggi, condanne e rielaborazioni più che in ogni altra occasione precedente. Peccato solo che la legge certe parole, come stronza, vieti ancora di usarle a fini elettorali. Si può dire “con Giorgia” ma non “con la stronza della Meloni”. Per il momento, però: la shitpostizzazione della politica continua.