Rifugiamoci nel nuovo album di Blood Orange

Perfettamente in linea con l’atmosfera malinconica dell’inizio dell’autunno, Essex Honey è un album che resisterà al passare del tempo, un luogo sicuro dove possiamo sia piangere che trovare conforto.

24 Settembre 2025

Per me, come per moltissimi altri, un nuovo album di Blood Orange non è un’incognita ma una certezza. Prima di ascoltarlo non devo chiedermi se mi piacerà, ma se mi piacerà tanto, tantissimo o tantissimissimo. Con Essex Honey (arrivato 7 anni dopo il precedente, Nigro Swan, e un mixtape, Angel’s Pulse) siamo nel campo del tantissimissimo, e non sono l’unica a pensarlo, viste le recensioni estasiate che ha ricevuto quando è uscito il 29 agosto. Nei commenti YouTube si leggono cose come: «this healed a part of me i didn’t know existed», «i feel like i’m coming home to myself», «making me cry and making me believe». E dire che ho pure commesso un grave errore di fruizione: la prima volta l’ho ascoltato in redazione, davanti al pc, mentre lavoravo.

Niente di più sbagliato, anzi direi blasfemo, perché questo è un album magico e spirituale che ha bisogno di respirare: spazi ampi e nulla da fare, se non camminare o fissare il panorama che scorre fuori dal finestrino. Il momento in cui ha iniziato a funzionare, infatti, è quando l’ho riascoltato durante una delle mie passeggiate solitarie nel parco Lambro, tra i campi immersi nel buio. Ormai è un mese che va in loop nelle mie orecchie, e non succede così spesso, ultimamente. Mi sembra che anche gli album, oggi, abbiano una vita sempre più breve, come tutti i prodotti culturali contemporanei che consumiamo: quello della sua amica e collaboratrice Lorde, per esempio, in cui c’era comunque il suo zampino (qui lei ricambia cantando in “Mind Loaded”) ho smesso di ascoltarlo già dopo una settimana. Troppo energico, troppo urbano, «an ode to city life and horniness», lo diceva lei stessa. Sarà che diventa sempre più difficile romanticizzare la “city life” (soprattutto a Milano), sarà che, proprio come Devonté Hynes, vero nome di Blood Orange, a volte smettiamo di sentirci allineati alla nostra stessa vita e l’impulso di scappare lontano ci travolge. 

La mente come un campo

Che questo sia un album che ha bisogno di verde e spazi aperti («my mind feels like a field, it feels like the countryside», dice in questa bella intervista di GQ Usa), lo confermano i  video: sia quello di “Mind Loaded”, il mio preferito, con Devonté che va avanti e indietro nei campi dell’Essex con un motorino vecchio e scassato, sia quello di “The Field”, da tanti già considerata la canzone migliore dell’anno, in cui lui e una coppia di amici guidano una macchina vecchia e scassata tra i campi per andare a una festa (sempre in un campo) e ballare intorno a un falò. Raccontati così potrebbero sembrare video gioiosi, una celebrazione della libertà, della natura e dell’amicizia, e in parte lo sono, ma ci sono dei momenti che rivelano come questo sia un album che nasce dal dolore.

Hynes, che viveva e lavorava a New York da anni (felicemente: negli album precedenti ha spesso celebrato la sua città adottiva e la community queer che l’ha accolto), ha iniziato a scriverlo dopo essere tornato in Essex, la sua terra natale, dov’è rimasto prima, durante e dopo la morte di sua madre. E allora il suo andirivieni in moto più che divertente sembra ossessivo e disperato, e il momento in cui si ferma a guardare il fuoco mentre i suoi amici intorno bevono e ballano non è da interpretare come il solito momento di dissociazione dell’artista introverso. Nei testi, il dolore emerge all’improvviso, come una fitta, ma convive con tante altre emozioni e ricordi, anche piacevoli. Sono le emozioni di un quarantenne («And in the middle of your life, could you have taken some more time?», canta in “In Between”) che ha perso il suo punto di riferimento, la madre, e deve ripensare tutto. Ma non è un’autobiografia aneddotica: Hynes scrive per aforismi, registra i pensieri così come emergono, e poi con la musica li trasforma, accostando a parole tristissime melodie rilassanti e celestiali.

Ricordi fatti di musica

Gli artisti invitati (tra cui Lorde, Caroline Polachek, Mustafa, Brendan Yates dei Turnstile, Tirzah, ma anche la scrittrice Zadie Smith – in “Vivid Light”, che parla del blocco dello scrittore) non sono dei featuring: le loro voci echeggiano sullo sfondo come dei cori, come preghiere o dubbi della coscienza, ricordi di frasi dette o sentite da qualcuno. Hynes dice che la sua musica è come un desktop con tantissime tab aperte. Ogni tab contiene altri link. “The Field” è costruita su “Sing to Me” dei Durutti Column. In “Mind Loaded” canta «Everything Means Nothing To Me», rubando la melodia e le parole a Elliott Smith. “Westerberg” riprende “Alex Chilton” dei Replacements. Essendo la vita di Blood Orange fatta di musica – sette album suoi (due come Lightspeed Champion, e prima ancora una band, i Test Icicles), colonne sonore di film e serie (ad esempio quella, bellissima, di We Are Who We Are di Luca Guadagnino, ma anche Palo Alto di Gia Coppola) e soprattutto tantissimo lavoro come autore, produttore e compositore (per artisti molto più famosi di lui, tra cui A$AP Rocky, FKA Twigs, Solange, Mariah Carey, Kylie Minogue) – è normale che i suoi ricordi siano fatti di musica e che tra le sue rimuginazioni emergano melodie e strofe di canzoni amate.

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Bassa autostima globale

Le copertine degli album e dei singoli di Blood Orange meriterebbero una lunghissima analisi a parte: sono sempre fotografie strepitose che ritraggono persone per lui significative. Se la copertina del singolo “The Field” è un adorabile quadretto bucolico (quanto è bella?), quella dell’album (scattata da Johny Pitts) non ha niente di verde: c’è un bambino in divisa che torna da scuola camminando a testa bassa, perso nei suoi pensieri, con in una mano un pallone da basket e nell’altra il cellulare. È importante che il ragazzino tenga in mano un telefono, spiega a Lawrence Burney su GQ Usa, dove parla ancora di quella necessità di allontanarsi fisicamente e emotivamente da tutto, anche dal mondo digitale. «Penso che stiamo vivendo un burnout collettivo», dice, «Potrei scrivere un altro intero album solo su cosa significhi oggi pubblicare qualcosa, buttarlo nel mondo. In generale, faccio fatica con le aspettative legate a come ci si deve presentare oggi nel mondo, a come ci si deve mostrare, che oggi sembrano ovunque. E non credo riguardi solo i musicisti, ma tutti. Penso che tutti lo sentano. Ho la sensazione che tutti, nel mondo, abbiano una bassa autostima. Non credo che nessuno sia davvero sicuro di sé, perché tutti sono stati buttati giù, e viviamo in un mondo fatto di paragoni».

Forse è proprio perché riesce così bene a capirci (anzi, a capirsi: la sua musica parla sempre e solo di se stesso, dice) che Dev Hynes è riuscito a creare un album così sofferto – dalle prime parole della prima canzone, «In your grace, I looked for some meaning, but I found none», alla registrazione della voce della madre durante il loro ultimo Natale insieme – eppure così dolce, un’oasi di pace in cui il nostro dolore trova conforto, anche se (o forse proprio perché) ci ritroviamo a ripetere insieme a lui, come se fosse un mantra, «I don’t want to be here anymore».

Zadie Smith farà il suo esordio da cantante nel nuovo album di Blood Orange

Per ascoltarla dovremo aspettare il 29 agosto, data di uscita di Essex Honey.

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